31/07/17

I Racconti di Vince e Mau: QUANTE ERANO LE PRESENZE ALLO SPECCHIO?

 Atmosfere noir e colpi di scena sono il filo conduttore di questi tre racconti, perfetti per provare un brivido nelle calde notti di mezza estate...

 

 

QUANTI ERANO?

(di Vincenzo Zappalà)

 

Paolo si sentiva una persona fuori dal mondo. La vita gli aveva dato e gli stava dando ben poco. Non un amico, un interesse, una compagna. Gli sembrava solo una monotona e ripetitiva sequela di banalità e di luoghi comuni senza alcuna ragione o interesse. Non aveva mai lavorato. La famiglia era piuttosto ricca e gli aveva lasciato un patrimonio considerevole. La ragione, però, non era quella. C’era per lui qualcosa di assurdo nel cercare di trovare un’occupazione. Non sapeva perché, ma gli sembrava un inutile spreco di “tempo”. Non avrebbe avuto niente a che spartire con gli eventuali colleghi.

Paolo viveva in un mondo che sembrava scorrere senza curarsi di lui. Gli sembrava di essere una pedina fuori dal gioco. Anzi, ancor peggio, era come se fosse trasparente per tutti coloro che lo circondavano. Nessuno che lo guardasse, gli rivolgesse la parola, cercasse un qualsiasi approccio. Paolo era solo, inutile e apparentemente invisibile. Sapeva benissimo che non era così, ma odiava il fatto che tutti avessero sempre da fare qualcosa, che corressero in preda a una smania per lui incomprensibile, quasi inseguiti dal tempo che li trascinava in avanti. Il tempo… per lui era un incubo.

A volte scorreva così velocemente da farlo piangere, altre volte sembrava rallentare al punto da fargli sentire la noia come un male fisico. Odiava gli orologi che si muovevano implacabili senza dargli la possibilità di pensare e riflettere. Come facevano a essere così precisi, monotoni, ripetitivi quando per lui i secondi scorrevano in modo del tutto casuale e irregolare? Detestava ugualmente i giornali, la televisione, la radio, tutto ciò che gli ricordasse che era passata un’altra ora, un altro giorno, un altro mese. Erano invenzioni stupide dell’uomo. Come facevano i suoi “simili” ad accettarle supinamente, senza ribellarsi? No, non poteva avere amici e nemmeno li avrebbe voluti.

Ogni tanto contemplava il cielo, le nuvole, il Sole, la Luna, le stelle. Quei fenomeni e quegli oggetti lo facevano sentire più a suo agio. Vedeva sorgere il Sole e pensava che alba e tramonto erano in fondo molto simili, quasi identici. Entrambi erano prossimi alla notte. Questo fatto inconsciamente gli dava conforto. Nella vita degli esseri umani c’era invece qualcosa che lo turbava, qualcosa di incomprensibile, che dava una sequenza artificiosa ai due fenomeni dell’alba e del tramonto.

Da bambino, non aveva studiato. Le sue condizioni di salute erano troppo precarie e aveva passato anni e anni rinchiuso in una prigione dorata. Poi avevano detto che era guarito. Da che cosa? Non lo aveva mai saputo. Infine, quel terribile incidente automobilistico lo aveva lasciato solo in un mondo che gli era estraneo, che sembrava rigettarlo, che non si accorgeva di lui. Se solo il tempo fosse passato più velocemente e tutto fosse finito. Lo desiderava spesso, ma poi si accorgeva di stare pensando e ragionando e allora sperava ardentemente che tutto si fermasse e gli desse la possibilità di vivere all’infinito.

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In quella nebbia indistinta di follia e ragione, di vuoto e di oppressione, in mezzo a spettri senza forma, esisteva solo un volto e un corpo tozzo, quasi sgraziato, che si era insinuato nella sua mente. Paolo non sapeva perché. Lui guardava tutti e non vedeva nessuno, ma quell’ometto, quasi ridicolo, gli aveva lasciato un segnale inconscio, impercettibile, ma unico. Ogni volta che lo incontrava, si riaccendeva la memoria per poi spegnersi poco dopo. Poi, un giorno, iniziò a pensare a lui anche senza vederlo e si chiese la ragione di quell’assurdo interesse. Mai che quel tizio gli avesse parlato, sorriso o anche soltanto guardato negli occhi. Eppure…

Si accorse di aver cominciato a scrutare agli angoli delle strade, di cercare quell’essere umano così anonimo e insignificante tra la folla di fantasmi. Poi, un giorno, iniziò a seguirlo di nascosto. Sembrava stesse vivendo una vita come tutti gli altri. Entrava e usciva dai negozi, dagli uffici, senza esserne turbato. Passarono gli anni, sempre uguali, monotoni, inutili. Paolo aveva, però, finalmente, uno scopo: seguire quell’uomo. Non gli interessava sapere dove abitasse, dove lavorasse, cosa mangiasse o cosa bevesse. Voleva solo vederlo, scrutarlo, capire la ragione di quell’interesse assurdo. Gli sembrava anche che avesse cambiato fisionomia col passare del tempo. Adesso appariva più alto, meno grasso, più disteso. Forse era solo una sua impressione, ma a lui pareva reale.

In quell’anormale assurdità Paolo non si rese nemmeno conto di avere osato troppo e di essersi scoperto. L’uomo si era accorto di lui. Ne era certo. Non lo guardava mai, ma si fermava sempre più spesso davanti alle vetrine, mentre i suoi occhi sbirciavano di lato, quasi a cercarlo. Poi, un giorno, i loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo. Paolo, finalmente, ebbe la possibilità di leggere dentro una mente che non fosse la sua. Una frazione di secondo, non di più, ma la sua vita cambiò. Non era più solo. Al risveglio si metteva subito alla ricerca dell’unico uomo che assomigliasse a lui. Sì, lo sentiva un suo simile, non uno spettro senza corpo e anima come tutti gli altri. Non gli interessava spiegarsi perché fosse arrivato a quella conclusione, apparentemente priva di senso.

Gli sguardi reciproci continuarono, sempre più lunghi, senza mai una parola, Non ne avevano bisogno. La bocca dell’uomo si atteggiò anche a un lieve sorriso e Paolo non seppe mai se anche la sua facesse altrettanto. Un sorriso triste, però, malinconico, quasi compassionevole. Forse l’amico aveva capito la sua tragedia, la sua solitudine, la sua diversità. Eppure, mai una parola, mai un cenno, un saluto. Ormai era più che sicuro che il tozzo e sgraziato vecchio di molti anni prima fosse diventato un giovane vigoroso e pieno di salute. L’affetto forse era proprio capace di agire come una medicina. La sua riconoscenza, o quello che era, aveva rinvigorito quelle membra ormai stanche. In fondo, Paolo ne era fiero.

Quel giorno di un mese molto caldo, per la prima volta in vita sua, seppe cos’era la felicità. Accettò perfino con piacere che il tempo fosse regolato in modo monotono e controllato. Alle 17 avrebbe visto l’uomo entrare in casa sua. Alle 16:30 si sarebbe chiuso alle spalle le porte dell’ufficio in fondo alla terza strada. Alle 9:00 le avrebbe aperte. Alle 8 sarebbe uscito dalla propria abitazione. La stessa cosa l’indomani e così via senza intoppi in tutti i giorni feriali.

Paolo non si stupì nemmeno di essersi messo a guardare gli orologi e avere imparato a leggere le ore. Guardò anche le vetrine dei negozi, i bar pieni di ombre indistinte, i manifesti colorati di un  cinema dove si proiettava un film fantascientifico sul Cosmo, sullo Spazio-Tempo, sugli Universi paralleli e cose del genere. Per lui erano concetti incomprensibili, eppure qualcosa scattò nella sua testa, qualcosa di meraviglioso e di terribile. Meraviglioso perché aveva capito tutto, terribile perché il volto del suo amico gli avrebbe presto o tardi dato l’annuncio: lui poteva farlo e lo avrebbe fatto. Ne era ormai sicuro. Quel sorriso triste nei suoi sorrisi ne era la prova decisiva.

Paolo non pensava però che fosse proprio quello il giorno fatidico. Se ne accorse appena vide il volto dell’amico. Non sorrideva, era molto triste, quasi piangente. Gli passò accanto con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Paolo sentì un sussurro o forse se lo immaginò soltanto: “Addio”. Percepì di avere anche lui gli occhi bagnati. Maledisse il mondo, la vita, tutto. Doveva succedere proprio oggi che aveva compreso e scoperta la felicità?

Tuttavia, non vi era niente da fare. Contro lo scorrere del tempo non si può agire. L’uomo sapeva benissimo cosa sarebbe successo a Paolo tra poche ore o solo pochi minuti. Lo sapeva perché aveva appena vissuto quell’esperienza, l’aveva vista con i suoi occhi. Poco prima per lui e “tra poco” per Paolo.

Paolo rivide con la mente i cartelloni di quel film che parlava di universi paralleli e sicuramente anche di direzione del tempo. Quanti erano come lui? Era il solo? No, sicuramente no, ma ormai era inutile saperlo. Lo stridio angoscioso dei freni gli fece sollevare il volto verso quel gigantesco camion che stava per investirlo. Doveva provare… la sua mente emise radiazioni di un’energia impensabile per chiunque. Doveva essere possibile per chi come lui aveva capito!

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Sentì uno “strappo”, ma non causato dalla lamiera che gli era piombata addosso. No, era uno strappo nel tessuto spazio-temporale. Si ritrovò sul marciapiede. Guardò l’orologio sopra al negozio del barbiere e capì. Si mise a correre, salutando tutti a gran voce, in cerca del suo amico, uno come lui, adesso.

In un “senso” o nell’altro tutto sarebbe ricominciato e chissà se lo strappo si sarebbe potuto ripetere. Ne avrebbe parlato con lui (ormai poteva parlare) e forse con tanti altri…

 

 

PRESENZE

(di Maurizio Bernardi)

Il ragionier Gualtieri si asciugò il sudore dalla fronte e si mise all’ombra del grande eucalipto che lui stesso, vent’anni prima, aveva piantato con le sue mani.

Il più era fatto, pensò, guardando con soddisfazione la massa informe del cespuglio di ginestra spinosa che aveva appena finito di estirpare. Ora non gli restava che trasportare con cautela quel groviglio di aculei in un posto adatto, lontano dal passaggio e dalla vista.

Da anni, Gualtieri trascorreva le ferie consumandosi nel tentativo di sistemare la selvaggia vegetazione mediterranea che aggrediva il giardino della piccola ed approssimativa costruzione di sua proprietà, pomposamente classificata dal catasto di Cagliari, ai fini della tassazione IMU, come villetta unifamiliare.

Ad ogni fine estate, rimirando il frutto delle sue fatiche, si illudeva di avere finalmente ottenuto un risultato definitivo: niente rami secchi sugli alberi ad alto fusto, non una foglia fuori posto nelle siepi  frangivento, nessun arbusto spinoso occultato malignamente tra i cespugli che circondavano la casa. Gualtieri odiava i rami disseccati e le foglie ingiallite, forse perché la loro vista evocava il senso della fine dell’esistenza, o forse solo perché urtavano il suo senso estetico. Fatto sta che si mobilitava nell’azione di ripulitura con impegno tenace, cominciando ad eliminare il seccume più a portata di mano e allargandosi poi, oltre i propri confini, nei lotti adiacenti, non edificati, fin quando non si vedeva all’orizzonte un solo rametto che non fosse verde e rigoglioso. Una piccola mania, del tutto innocua, ma destinata a perpetuarsi di anno in anno perché ad ogni ritorno ritrovava lo stesso problema, quasi che una divinità dispettosa avesse operato in sua assenza per distruggere l’ordine che aveva faticosamente ottenuto.

E questa presenza ostile non si limitava a contrastare Gualtieri facendo seccare piante e foglie, o facendo sorgere immondi grovigli di spine nei luoghi meno opportuni, ma agiva anche sul regno inanimato, scalzando i ciotoli che contornavano le aiole, facendo rotolare grosse pietre sui sentierini tracciati con ragionieristica precisione, erodendo i fianchi della collina proprio dove Gualtieri avrebbe desiderato realizzare terrazzamenti per coltivare un piccolo orto. Non solo, il contagio si estendeva sistematicamente alla casa, alle sue pertinenze ed ai suoi impianti. Ogni anno era un ricominciare da zero; più che di manutenzione si trattava di vera ricostruzione: rubinetti bloccati, autoclave fuori uso, lampadine misteriosamente fulminate, invasione di radici nella fossa biologica, travi ed infissi divorati dalle formiche rosse... Era difficile pensare che tutto ciò avvenisse casualmente, senza la regia di una entità perversa che, con sagacia e costanza, operasse nei lunghi mesi in cui Gualtieri era assente, per  sovvertire l’ordine.

Nei primi anni questa competizione occulta gli era sembrata molto stimolante, convinto come era di poter avere la vittoria finale. Ma negli ultimi tempi si era reso conto che per sostenere questa lotta aveva di fatto rinunciato a quella che comunemente si definisce “vita da mare”. Insomma niente nuotate, gite in barca, visite alle calette disseminate lungo la costa, tramonti in spiaggia, barbecue sotto la luna, eccetera. Al loro posto un lavoro estenuante e vano di pala, piccone, cesoie, rastrello, forcone, cacciavite e martello. E senza mai potersi distrarre un secondo. Quante volte gli era capitato di girare la testa per un attimo e non ritrovare più l’attrezzo che aveva lasciato un secondo prima. Evidentemente la presenza ostile gli metteva i bastoni tra le ruote anche con questi mezzucci. Aveva dovuto ricomprare le cesoie innumerevoli volte, attribuendo la colpa della loro frequente scomparsa, alla propria distrazione: “saranno finite in mezzo alla paglia e le avrò buttate nel cumulo, senza vederle”.

In realtà le cose dovevano stare ben diversamente. E Gualtieri, alla fine, lo aveva capito.

Così aveva concepito un piano per porre termine a quella maledizione.

Per non insospettire la presenza ostile era stato al gioco per tutta l’estate, si era affaccendato nei compiti che per anni aveva vanamente svolto, non aveva trascurato alcun dettaglio della solita routine, aveva serenamente accolto le sparizioni di attrezzi e oggetti che si erano regolarmente verificate, aveva continuato a svellere pruni, fichi d’india, rovi, cardi,  a spostare massi erratici, a ricostruire muretti di pietre misteriosamente dissestati. Ma aveva anche accumulato con discrezione alcune bombole di gas liquido, del tipo che usava per cucinare, in quantità ben superiore alle sue necessità. Le aveva immagazzinate nel locale degli attrezzi, dove riposavano in attesa del loro momento.

Il cespuglio di ginestre selvatiche aveva una natura scostante e vendicativa. Il ragionier Gualtieri lo afferrò con la prudenza che gli derivava dall’esperienza, con la determinazione con cui un torero affronta il toro, guardandolo negli occhi. Certo, il fatto che il cespuglio non avesse occhi da fissare rendeva le cose un poco più difficile, ma Gualtieri se la cavò con grande talento. Alla fine riuscì a fare rotolare l’avversario lungo la china del dirupo a lato della strada condominiale, ad una distanza decente dall’asfalto.

Non restava altro da fare per quel giorno. Anzi: non restava altro da fare e basta, dato che le ferie erano ormai finite e tutto era stato rimesso in ordine, come da copione.

Gualtieri si prese una pausa: fece la dodicesima doccia della giornata e mise la macchina del caffè sul gas.

Già, il gas, che splendida invenzione.

Ripassò mentalmente il percorso lungo il quale avrebbe steso il tubo di gomma celeste che aveva comprato allo scopo. Dal vano degli attrezzi fino a raggiungere il loggiato, poi nella cucina e da qui nella camera da letto: tre bombole. Le altre tre all’esterno, sotto lo sperone di roccia alle spalle della casa. La sequenza era importante, prima all’interno e poi all’esterno; per questo occorrevano due inneschi separati, con due timer ben sincronizzati.

Sorseggiò golosamente il caffè, pensando alla faccia che avrebbe fatto la “presenza”, ammesso che avesse una faccia.

 

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LO SPECCHIO

(di Vincenzo Zappalà)

 

Se ci pensava bene, probabilmente quella fobia, quel terrore gelido e insinuante, lo aveva sempre avuto. I primi ricordi, frammentari e distorti, dei suoi 3-4 anni sembravano essere già intrisi di paura. Sicuramente lo aveva accompagnato negli anni della scuola, dell’adolescenza, del lavoro. Ora a quarantasette anni, Piero ne era ancora completamente succube e schiavo. Eppure la sua vita era perfettamente normale: aveva una moglie splendida e due figli altrettanto magnifici. Un’esistenza serena e piacevole. Tante piccole discussioni, ma grande stima e amore verso la sua compagna. I due bambini, poi, crescevano proprio bene, in un ambiente “apparentemente” rilassato e tranquillo.

In realtà nessuno conosceva l’incubo di Piero. Era sempre riuscito a tenerlo per sé e nemmeno la moglie Luisa, nell’intimità, aveva dato segni di averlo compreso o quantomeno intuito. Sì, ogni tanto poteva capitare che gli facesse qualche battuta, ma sicuramente non poteva immaginare che cosa ci fosse veramente sotto. Lo prendeva un po’ in giro, quando l’ansia lo avvolgeva fino a farlo ansimare e si soffermava più a lungo del dovuto davanti allo specchio. “Stai tranquillo. Hai una bellissima linea. E’ inutile che ti muova come un pavone, sei ancora in piena forma”. Di solito queste parole lo facevano tornare in sé e riprendeva subito il controllo della situazione, assecondandola nello scherzo. Ma solo lui sapeva la fatica e lo sforzo che doveva fare.

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Quando era solo, passava ore davanti allo specchio, fino a farsi dolere gli occhi nello scrutare qualsiasi piccola anomalia. Faceva sberleffi, movimenti assurdi, ma niente, niente… Non riusciva mai ad avere una prova della sua fissazione, che per lui era ormai diventata una certezza definitiva. Non poteva sicuramente parlarne al medico, lo avrebbe fatto immediatamente ricoverare e avrebbe messo in allarme anche la moglie, distruggendo la tranquillità così faticosamente costruita e mantenuta. Come avrebbe potuto, infatti, credere a uno che gli chiedeva con semplicità e ingenuità: “Scusi, dottore, ha per caso qualche pillola per aiutare uno che è convinto che la sua immagine allo specchio si muova indipendentemente dalla sua volontà? Non ho ovviamente alcuna prova, ma mi deve credere ciecamente”. Gli veniva perfino da ridere a quell’idea. No, nemmeno a pensarci.

C’era un solo modo per uscirne fuori: riuscire a essere più veloce, rapido e intelligente della sua immagine. La doveva prendere in castagna, acquisire una prova sicura. Poco importava se quella guerra sarebbe rimasta un affare privato, tra lui e il suo nemico. Avrebbe comunque avuto la sicurezza interiore e si sarebbe comportato in modo ben diverso: sarebbe diventato un uomo ancora più forte e risoluto. Avrebbe preso le redini della situazione e finalmente sarebbe stata l’immagine ad avere paura. Era stata scoperta e ora cosa avrebbe fatto? Sì, quello era l’unico modo per uscire dalla sua agonia mentale. Piero non era un pazzo, anzi era molto lucido, preciso e preparato nel suo lavoro. Così com’erano perfette le sue relazioni con gli altri. Era più che sicuro di non aver mai sognato, di non aver mai avuto allucinazioni o visioni.

Lui se ne era accorto da piccolissime variazioni di movimento, da lievi ritardi, da microscopici errori di posizione. Proprio perché aveva una vista e una sensibilità peculiari era riuscito a scoprire quella verità nascosta e misteriosa. Non certo perché era pazzo! Aveva molta stima di sé ed era sicuro che prima o poi avrebbe vinto la battaglia. E magari sarebbe anche riuscito a dimostrarlo al mondo, anche se quello non era il suo vero obiettivo. Per adesso, avanti con la massima lucidità e attenzione, senza momenti di disperazione o di scoramento.

Ovviamente non esistevano solo gli specchi. Vi erano anche altre situazioni in cui la sua immagine veniva allo scoperto, anche se in modo meno nitido e limpido. Piero era convinto dentro di sé che forse quelle apparizioni potessero essere le più allettanti e promettenti. Se la visione si appannava per lui, probabilmente succedeva lo stesso per l’avversario. L’importante era approfittare del minimo momento di debolezza del suo nemico personale. A parole sembrava facile, ma sia specchiandosi in un lago, sia guardandosi di traverso in una vetrina, mai aveva notato occasioni talmente ghiotte da potergli offrire un qualche vantaggio. Giocavano sempre ad armi pari e il suo avversario era di una precisione perfetta. I suoi periodi di ottimismo e di pessimismo si alternavano e la sua vita scorreva altalenante, tra momenti di speranza e altri di depressione. Ma il suo carattere forte lo faceva resistere: “Domani è un altro giorno” diceva “chissà?”

E l’ALTRO giorno venne. Stavano facendo un picnic al lago nei pressi della loro cittadina. Si era già fuori stagione, ma la temperatura ancora molto gradevole. I bambini correvano a raccogliere legna per fare un improvvisato barbecue. C’erano le salsicce, due belle bistecche di manzo e una decina di succulente costine di maiale che sembravano chiedere ardentemente di finire sulla brace. Sua moglie stava raccogliendo more e lamponi. Lui era veramente rilassato e si godeva l’atmosfera idilliaca e riposante di quella splendida giornata di settembre. Prese in mano la macchina digitale proprio nel momento in cui si sollevò una forte brezza meridionale che scompigliò i capelli di Luisa, fece gridare di gioia i bimbi e increspò improvvisamente la superficie del lago. Tutto era durato un attimo e Piero senza nemmeno pensarci si era alzato di colpo prendendo una foto della scenetta familiare. Era venuta proprio bene.

Benché la folata di vento fosse già passata, i capelli della moglie erano ancora tutti mossi e aggrovigliati. I bimbi avevano ancora le bocche spalancate nel loro urlo di sorpresa per quello sbuffo d’aria improvviso. E poi vi era anche lui, o meglio la sua immagine, riflessa nel lago che era appena tornato calmo. Non era un’immagine nitida, essendoci ancora una certa increspatura, ma abbastanza da fargli venire un mancamento. Nessuno doveva vedere quell’immagine. Era sua, solo sua. Era la vittoria assoluta, la prova definitiva. Quel pomeriggio trascorse in modo magnifico. Piero era allegro come mai in vita sua: saltava, giocava con i bimbi, abbracciava con trasporto la moglie, parlava, rideva e scherzava su tutto. Non guardò nemmeno più la superficie del lago. Non ne aveva più bisogno e stava assaporando il suo agognato trionfo.

L’indomani fece le cose con molta calma. Salvò l’istantanea su dischetto, sulla chiavetta, la stampò in decine di copie. Poi ne fece ingrandimenti in cui il particolare decisivo era ingrandito al massimo e dominava la scena. Sapeva benissimo che era una prova solo per lui e per il suo avversario. Nessun altro poteva capire o dargli ragione. La foto era normalissima e persino banale. Piero sentiva che la sua immagine riflessa non era solo un antagonista furbo, rapido, sicuro, ma anche onesto e leale. Avrebbe capito e avrebbe accettato la sconfitta. Con in mano l’ingrandimento andò davanti allo specchio e mise il foglio davanti a lui. La sua bocca accennava a un leggero e discreto sorriso. Non fu nemmeno stupito o spaventato nel vedere che ben diversa era la smorfia della sua immagine speculare. Gli occhi erano bassi e la bocca imbronciata. Aveva abbassato tutte le difese. Era stata scoperta e, come Piero aveva previsto, stava accettando lealmente la sconfitta.

Il vincitore non disse niente ed ebbe perfino un moto d’imbarazzo. Non voleva affondare il coltello nella piaga. L’avversario aveva diritto a una resa onorevole. Lo lasciò solo e se ne andò al lavoro fischiettando. L’immagine era invece veramente distrutta. Milioni e milioni di anni di studio, di perfezione assoluta, di analisi e ricerche, buttate al vento proprio per un soffio di vento inaspettato: quella mano sollevata ma vuota, mentre invece Piero aveva raccolto la macchina fotografica ... Dovevano abbandonare tutto, non potevano continuare in quella situazione diventata ingestibile. Anche se per loro il tempo aveva un significato ben diverso da quello degli “altri”, la missione era stata comunque un’enorme fatica rilevatasi del tutto inutile.

Se ne andarono in silenzio, in punta di piedi, anonimi e invisibili come quando erano arrivati. E pensare che erano quasi riusciti ad avere tutte le informazioni necessarie per la seconda fase, ma quell’uomo straordinario li aveva scoperti. Eppure non c’era stato niente da fare: potevano rimanere invisibili dovunque tranne che nelle superfici riflettenti. E Piero era stato più furbo di loro. Onore al nemico, che forse mai avrebbe saputo di aver salvato il suo pianeta.

No, Piero non l’avrebbe mai saputo, ma di sicuro il futuro dell’umanità avrebbe avuto altro cui pensare. Non era più un fatto privato del nostro eroe, ma di tutti. Lui però sarebbe ancora una volta rimasto solo, l’unico a sapere tutto o quasi. E nuovamente non avrebbe potuto dirlo a nessuno.

In fondo poco era cambiato per lui in un mondo che aveva perso per sempre le sue immagini speculari.

 

 

Tutti i racconti di Vince & Mau sono disponibili nella rubrica ad essi dedicata

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