16/08/20

LE VITTIME DEL TEMPO PROFONDO *

Il presente articolo è stato inserito nelle sezioni d'archivio Pianeta TerraQuattro passi nella storia della Scienza

Seconda e conclusiva parte dell'avventura geologica sul tempo profondo (la prima parte la trovate QUI). Il concetto "tempo geologico" si è fatto strada a fatica nel bagaglio culturale umano e, come in altri rami della scienza, su di esso si sono scatenate lunghe battaglie tra gli specialisti. Grazie anche a questi aspri confronti, si è arrivati alla visione moderna dei ritmi con cui si modifica la Terra.

La consapevolezza dell'esistenza di un "tempo profondo", cioè dell'enorme immensità temporale interposta tra la formazione della Terra (circa 4,5 miliardi di anni fa) ed il brevissimo periodo occupato della storia umana, è una conquista recente. Il sospetto che la datazione della "genesi" del pianeta, ricavata speculativamente dalle sacre scritture (l'ecclesiastico protestante James Ussher - 1581-1656 calcolò con precisione matematica la data del 22 ottobre del 4004 a.C., stabilendo così un paradigma di riferimento, soprattutto per i protestanti), non fosse coerente con le osservazioni fatte dagli studiosi di storia naturale si fece strada alla fine del XVII secolo, ma occorsero ben 160 anni perché l'idea mettesse radici nel contesto culturale. La storia di questa conquista, al pari delle altre grandi rivoluzioni scientifiche che hanno portato l'uomo a dover rinunciare all'idea di una sua centralità nella natura, è stata perciò lunga (QUI) ma soprattutto faticosa.

In questa grande vicenda non sono mancati disaccordi e contrasti tra protagonisti, tra figure di secondo piano e tra scuole di pensiero. Confronti spesso anche duri; coloro che si fecero araldi del nuovo dovettero mettere in gioco la propria credibilità di uomini di scienza, subire ostracismo e fronteggiare incomprensione, come fu per James Hutton e per la sua opera. Anche quando il tempo profondo divenne un concetto sostenuto dalla valanga di indicazioni osservative e dalla solida trattazione compendiate nella grande opera di Charles Lyell, i "Principles of geology" (1830), rimaneva chi, in particolare negli ambiti ecclesiastici, continuò a sostenere convintamente tutt'altra linea di pensiero.

L’esistenza del tempo profondo sollevava però nuovi interrogativi nelle menti più aperte: i cambiamenti che avevano modellato per tempi lunghissimi la Terra e gli ambienti con che modalità erano avvenuti? Le forze endogene ed esogene erano all’opera da tempi remotissimi, questo era ormai chiaro, ma in che modo esse avevano prodotto il mondo attuale? Si era trattato dell’accumulo di rapidi e discontinui processi o di un lento, continuo e progressivo lavorio?

Lyell proponeva un meccanismo secondo cui i fenomeni geologici modificavano la Terra con continuità, cioè attraverso cambiamenti lenti e cumulativi. Inoltre riteneva che questi cambiamenti avvenissero con velocità non solo bassa ma anche costante. L'idea prese il nome di gradualismo, e fu un puntello importantissimo per le teorie darwiniane.

Il gradualismo di Lyell esclude quindi che eventi improvvisi e rapidi possano avere un ruolo nell’immensità del tempo profondo e nella modificazione della Terra. Non ha senso, per Lyell, invocare catastrofi o fenomeni parossistici per spiegare le dinamiche che intervengono a modellare la superficie terrestre. Inutile ipotizzare passate cause eccezionali per spiegare quanto può essere spiegato in base a fenomeni lenti e graduali, gli stessi fenomeni che è possibile osservare mentre operano nel tempo presente. E’ il principio “di parsimonia”: non ha senso introdurre cause nuove e speciali se un fenomeno può essere spiegato con le cause che si osservano nel momento presente (questo principio è alla base della definizione di “bellezza” e di “eleganza” che spesso viene tributata all’esplicitazione in formule matematiche di molte grandi teorie scientifiche). Una parsimoniosità sostanziale dunque, minimalista, niente di superfluo, nessuna aggiunta di ingredienti esotici, nessuna invenzione funambolica di enti strani o misteriosi, deve esserci spazio solo per ciò che è strettamente necessario).

Le idee di Lyell si insinuarono in un contesto culturale dominato da una visione quasi opposta: la scuola del cosiddetto catastrofismo, il cui più noto ed agguerrito esponente fu il biologo francese Georges Dagobert barone di Cuvier (1769-1832). Personalità scientifica di prim’ordine, Cuvier si dedicò alla zoologia, alla paleontologia, alla classificazione delle forme del regno animale e all’anatomia comparata. La sua vasta produzione saggistica pose le basi della paleontologia dei mammiferi di cui descrisse un immenso numero di specie estinte, compendiato poi in 4 volumi pubblicati nel 1812 (Recherches sur les ossements fossiles de quadrupedes). Cuvier aggiungerà a questa monumentale opera un importantissimo addendum intitolato “Discours preliminaire” che nel 1825 assumerà forma compiuta nel “Discours sur les revolutions de la surface du globe”. In quest'ultimo testo Cuvier espose la teoria secondo cui il tempo profondo è scandito da grandi estensioni temporali in cui le forme viventi conservano una sostanziale stabilità fino all’improvviso manifestarsi di fenomeni geologici parossistici, vere e proprie catastrofi che “spianano” il panorama biologico lasciando enormi vuoti, in seguito riempiti dalla diffusione di nuove specie.

Fig. 1. Frontespizio della terza edizione dei "Discours sur les revolutions de la surface du globe" di Georges Cuvier (1825).

Cuvier era un valido uomo di scienza, attento ed estremamente legato al dato osservativo, inclinazione che la lunga pratica di analisi anatomica aveva reso granitica, e non potè far altro che basare i propri ragionamenti su precisi dati empirici, anzi lasciò che fossero le osservazioni stesse a parlare, ben guardandosi dal forzare alcuna interpretazione. Studiò per anni le rocce sedimentarie nel bacino della Senna, nei dintorni di Parigi, coadiuvato dal geologo Alexandre Brongniart e ricostruì quella che oggi viene chiamata la “serie stratigrafica” o “colonna stratigrafica” di quelle successioni sedimentarie, impilando idealmente l’uno sull’altro gli strati di roccia incontrati sul terreno, in modo da ottenere una sequenza verticale leggibile come una successione temporale. In questa successione egli individuò evidenti discontinuità, repentini passaggi da un tipo di roccia ad un altro e, soprattutto, improvvise scomparse di faune e flore fossili cui seguiva l’improvvisa comparsa di forme biologiche nuove e diverse da quelle sottostanti.

Queste rotture di continuità per Cuvier costituivano un dato scientifico e pertanto non potevano essere ignorate ascrivendole a lacunosità nella documentazione geologica e paleontologica (giustificazione invocata da Lyell). La diffusa presenza delle discontinuità ed il fatto che le successioni temporali mostrassero contatto diretto tra sedimenti diversi e forme biologiche estinte permetteva perciò di ipotizzare l’intervento di eventi catastrofici, repentini e di inimmaginabile potenza, intervenuti a modificare la superficie terrestre e gli ambienti al punto da cancellare per sempre faune e flore vissute per lunghi periodi precedenti. Cuvier li indicò come veri e propri “punti di non ritorno” nel tempo profondo, brevi momenti di crisi globale e causa degli improvvisi cambiamenti mostrati dalla documentazione geologica e paleontologica.

Fig. 2. Tavola riportante una colonna stratigrafica del bacino della Senna presso Parigi, pubblicata inizialmente da Cuvier in collaborazione con il geologo Alexandre Brongniart nel “Essai mineralogique sur les environs de Paris” nel 1808. Il lavoro sarà poi la base per la teoria esposta nel successivo “Discours”.

La teoria di Cuvier, condivisa anche da molti altri esponenti di rilievo del pensiero scientifico dell’epoca (L. Agassiz, A. Sedgwick, R. Murchinson), si poneva perciò in netta opposizione alla visione del cambiamento lento, graduale e a velocità costante sostenuto dalla scuola di Charles Lyell e, indirettamente, costituiva un punto di contrasto con la visione darwiniana dell’evoluzione della vita. Ad onta della solidità metodologica del contributo scientifico di Cuvier il catastrofismo fu, forse strumentalmente, frainteso e per un certo periodo divenne l’ideale uovo di Colombo che rimetteva tutto a posto: il diluvio universale, datato con tanta precisione sulla base delle testimonianze bibliche, altro non era che l’ultimo di una lunga serie, l’ultimo in ordine di tempo dopo il quale, per intervento divino, il mondo si era ripopolato con la pletora di forme di vita attuali.

E’ amaro constatare che ancora nei testi di geologia degli anni 1950-70 l’illuminista Cuvier, che mai nei suoi lavori sostenne l’alternarsi di “interventi divini” o “creazioni” ai fenomeni catastrofici responsabili delle crisi biologiche, viene presentato come il personaggio antiscientifico (!) che consentì alle frange ecclesiastiche reazionarie di trovare un sostegno alla propria testarda opposizione alle idee di Lyell. Simili libertà espositive possono forse essere giustificate se si considera che il catastrofismo non resse più di tanto il confronto con il gradualismo, che finì con l’imporsi quale visione delle dinamiche del tempo profondo, relegando i pur brillanti e scrupolosi lavori di Cuvier nei dimenticati scaffali delle curiosità della storia della scienza.

L’idea del gradualismo rimase padrona del campo fino all’epoca recente ma l’ombra proiettata su di essa dalle corrette osservazioni di Cuvier non venne mai meno, l’evidenza sperimentale di grandi iati nelle successioni sedimentarie rimase un dato malamente giustificato e a forza ignorato. Tuttavia un senso doveva averlo.

Nel 1909 l’attenzione di un giovane insegnante di scienze di un liceo nordamericano, Harley Bretz, fu attratta dall’enigmatica presenza di una particolare morfologia estesa su una superficie immensa (paragonabile a quella della Campania) nello stato di Washington. Questa enorme porzione di superficie terrestre (fig. 3), denominata “scablands” si presenta come una distesa desertica priva di suolo, attraversata da imponenti canyon senza corsi d’acqua, costellata da giganteschi accumuli di ghiaia, da forre e voragini talmente ampie e profonde da poter contenere interi isolati cittadini. All’estremità nordorientale delle scablands si trova una scarpata di dimensioni paragonabili a 10 volte le cascate del Niagara ma completamente asciutta.

Fig. 3. Carta dello stato di Washington, la superficie delle “scablands” occupa quasi metà dello stato. Fonte NASA Earth Observatory.

L’immagine satellitare in fig. 4 evidenzia bene sia la grandiosità delle scablands che la differenza con il contesto circostante; per apprezzarne le dimensioni è utile il confronto con le cime della “Cascade Range”, una notevole catena montuosa (cime oltre i 3000 m) di origine vulcanica che le delimita a ovest (in bianco nell’immagine).

Fig. 4. Immagine satellitare (mosaico) di una porzione delle “scablands”. Si notino le cime in bianco dei vulcani della Cascade Range, il tratto compreso nell’immagine misura circa 300-350 km. Il reticolo idrografico, del tutto anomalo, è costituito da due soli fiumi: il Columbia e lo Snake River. Fonte NASA Earth Observatory.

Una simile stranezza morfologica doveva avere origini altrettanto curiose e Bretz cercò di ottenere una spiegazione dai geologi locali ma non ottenne alcuna risposta convincente. La leggenda ascrive a questa sua curiosità insoddisfatta le motivazioni che lo indussero ad ottenere un Ph.D. in geologia, all’età di 31 anni, ed a tornare sul posto per studiarlo meglio, forte delle nuove conoscenze acquisite. Nel 1923 pubblicò un lavoro in cui ipotizzava l’origine delle “scablands”: un evento alluvionale di grandiosa portata aveva completamente asportato la porzione superficiale del territorio ed eroso così profondamente la regione da lasciarne traccia ben visibile anche dopo un lungo periodo di tempo. Bretz aveva riesumato lo spettro del catastrofismo e ipotizzato un fenomeno che, su scala almeno regionale, andava contro la teoria gradualista ormai consolidata tra la comunità dei geologi, che infatti replicarono convintamente che simili risultati potevano essere ottenuti solo con il lungo, lento ed inesorabile lavorio dell’erosione fluviale. Una questione di tempo, insomma. Milioni di anni di erosione e non un singolo evento alluvionale erano l’unica modalità in grado di produrre la stupefacente morfologia delle “scablands”. Inoltre, fu chiesto a Bretz, da dove sarebbe arrivata l’immane quantità d’acqua necessaria? Si stava per caso ritornando ai tempi in cui si invocava il diluvio universale come spiegazione scientifica?

Ma l’eretico Bretz non si diede per vinto e nel 1927 pubblicò un secondo lavoro in cui presentava ulteriori dati a sostegno dell’ipotesi che fenomeni alluvionali di grandiosa portata erano plausibili ed in accordo con le morfologie rilevabili sul territorio, che, al contrario, non potevano essere state generate dalla normale azione fluviale. Bretz non fu però in grado di fornire convincenti spiegazioni in merito alla provenienza della massa liquida necessaria e fu bollato come incompetente.

All’inizio degli anni ’40 un geologo dell’USGS (il Servizio Geologico statunitense), Joseph Pardee, presentò dati che dimostravano l’esistenza di un gigantesco lago glaciale (il lago Missoula, di estensione pari almeno ai laghi Erie ed Ontario messi assieme) situato ad oriente delle scablands e da esse separato da una immensa cornice di ghiaccio (600 m di altezza secondo alcune ricostruzioni) formatasi con l’avanzare della calotta polare nordamericana durante l’ultima fase glaciale (la Cordilleran Ice Sheet), tra 26000 e 13000 anni fa. L’origine del cataclisma alluvionale ipotizzato da Bretz non era più un mistero. La rottura della diga di ghiaccio sotto la pressione della massa d’acqua retrostante avrebbe causato l’improvviso riversarsi a valle di un flusso liquido di portata pari a circa 10 volte la somma della portata totale dei fiumi attuali terrestri. La gigantesca forza erosiva avrebbe “scorticato” completamente la regione, rasata da una corrente con velocità stimata in 130-140 km/h e generato le scablands, giungendo eventualmente a riversarsi nel Pacifico. La disputa sull’origine delle “scablands” si concluse nel 1979, quando le evidenze sperimentali vennero infine accolte ed a Bretz, ormai giunto al novantaseiesimo compleanno, fu assegnata la Penrose Medal, riconoscimento paragonabile al Nobel nel campo della geologia. Successivi studi evidenziarono che il fenomeno si ripetè svariate volte in conseguenza dell’alternarsi di fasi di avanzamento della calotta nordamericana cui seguirono successivi crolli della cornice glaciale e nuove inondazioni (fig. 5).

La vicenda di H. Bretz è emblematica: il paradigma scientifico di Lyell, consolidatosi alle spese di un preesistente paradigma viene a sua volta messo in crisi da una nuova visione mutuata da analisi condotte su base sperimentale ma interpretate in piena libertà di pensiero e fuori dagli schemi accademici, calzante esemplificazione del modello logico proposto da Thomas Khun nel suo lavoro sulle rivoluzioni scientifiche1.

Fig. 5. L’origine delle scablands secondo la ricostruzione moderna, sviluppata sull’idea di Harley Bretz:
1 – la calotta glaciale nordamericana avanza ed ostruisce il fiume Clark Fork;
2 – la diga di ghiaccio provoca la formazione del lago Missoula;
3 e 4 – il cedimento della diga glaciale provoca la catastrofica inondazione delle aree ad occidente che vengono erose profondamente in un tempo brevissimo, formando le “scablands”;
5 – la corrente defluisce lungo il canyon del fiume Columbia giungendo a scaricarsi nell’oceano Pacifico. Il fenomeno si è presumibilmente ripetuto molte volte tra 18000 e 13000 anni fa.
Adattato da Rosemary Wardley, National Geographic, fonte USGS Atlas of Oregon.

Le catastrofiche alluvioni delle “scablands” non sono un caso isolato e probabilmente neppure il più drammatico; negli ultimi anni le evidenze di fenomeni impulsivi e parossistici in grado di modificare anche su scala regionale la superficie terrestre si vanno moltiplicando: studi recenti hanno individuato le tracce di gigantesche alluvioni a carico del bacino mediterraneo quando, circa 6 milioni di anni fa, questi era in gran parte evaporato per esser rimasto isolato dall’Atlantico (la crisi salina del Messiniano). L’improvvisa apertura dello stretto di Gibilterra determinò la catastrofica ingressione di acqua oceanica nel bacino che tornò così a riempirsi in forse un paio di anni grazie ad una portata in ingresso stimata in 100 milioni di m3/s (Castellano D. et al., 2020)2. Un evento davvero apocalittico se si pensa alle proporzioni ed ai tempi dello sconvolgimento ambientale conseguente.

Il ruolo di eventi improvvisi e catastrofici nel modellare la superficie terrestre sembra oggi far parte del panorama geologico. Non siamo tuttavia di fronte al capovolgimento delle idee gradualiste di Lyell quanto piuttosto ad una loro integrazione, necessaria poiché i dati oggettivi così indicano man mano che vengono a galla e sono correttamente interpretati. E’ questa la visione dei meccanismi geologici chiamata “Sintesi Moderna”: il gradualismo opera continuamente e modella in tempi lunghissimi ma la velocità dei cambiamenti non sembra proprio costante; eventi catastrofici e rapidissimi, evidentemente abbastanza frequenti da rappresentare un fattore non trascurabile, costellano il tempo profondo lasciando segni importanti sulla scorza terrestre e cesure nella sua storia (non dimentichiamo il meteorite di Alvarez). E l’evoluzione della vita non può che averne risentito in passato e non potrà che risentirne in futuro (a prescindere dalle gesta più o meno avventate dell’uomo).

1 – Khun T., The structure of scientific revolutions, 1962. Chicago Univ. Press. Ed. italiana “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Einaudi 1979.

2 - https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0012825219302521

 

1 commento

  1. supermagoalex

    Grazie Guido, due articoli davvero molto interessanti!

    Come sempre nella scienza non esiste una teoria "perfetta", per fortuna c'è sempre quel margine di incertezza che lascia spazio a nuove idee e teorie che integrano e ci aiutano a comprendere sempre meglio l'evoluzione (in questo caso) del nostro Pianeta.

     

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