16/05/21

GOMITOLI

Questo è il quinto dei "Tesori di Guido" raccolti nella sezione d'archivio ad essi dedicata

 

Vi sono parole banali, parole potenti,

parole antiche e parole semplici,

parole acuminate e parole lievi.

Parole solitarie,

parole come incudini

e parole incolori.

Ma nessuna parola è inutile.

Per quanto piccolo a ciascuna va riconosciuto il giusto valore.

 

GOMITOLI

(di Guido Ghezzi)

 

Poco più di ventisei gradi centigradi, fors’anche ventisette, a ben vedere.

Un valore di scarsa rilevanza, pensò l’uomo. Il bastoncello di liquido del termometro cittadino seguitava a salire: eran tre giorni che s’allungava nutrito dal bulbetto sottostante e dilatato dal vigore termico dell’aria, ma s’era comunque lontani dal dover riconoscere al dato una qualche importanza. L’uomo era tra i pochi cittadini che posassero l’occhio sull’asticella di vetro a rilevarne l’indicazione da quando il vetusto apparato, sistemato nell’aiuola al bordo del marciapiedi, era stato oggetto d’un filologico restauro. La capannina ferrigna irta di riccioli e motivi floreali, un tempo ormai lontano svettante tra la vegetazione dell’aiuola, era stata dapprima messa sotto assedio dalla verzura più indisciplinata, poi fagocitata da ambiziosi arbusti e infine incaprettata da un’intricata copertura vegetale.

Pur soffocato da tanta coltre e dimenticato nell’ombra perenne di alberi ormai centenari il bulbetto aveva continuato a pulsare come un minuscolo cuore di lacerta, spingendo ora in su e richiamando ora in giù la colonnina sanguigna fino a che l’intervento d’un ignoto finanziatore aveva permesso di trarre a nuova luce la capannina per rinnovarne il corpo immiserito e poi inaugurarla con sobrio cerimoniale. L’uomo rinnovellò compiaciuto i pubblici elogi di sindaco e celebrità nell’atto di riconsegna ufficiale dell’apparecchio alla cittadinanza e terse col pollice un inesistente velo di polvere dal formale ringraziamento inciso sulla targa affissa sotto al bulbetto.

Quell’inutile gesto si ripeteva ogni mattina quando l’uomo, di strada per il lavoro, si soffermava su per giù alla medesima ora a leggere la temperatura. Non aveva l’abito di registrare quel dato nella propria memoria: non era un meteorologo né si occupava di statistica, anzi ben scarna era la sua conoscenza di entrambe le discipline. Quella svelta consultazione correva piuttosto a soddisfare un’intima esigenza, una sorta di rituale teso ad accertarsi che l’asticella godesse di buona salute e che lo stato termico dell’aria non fosse in procinto d’indurre il liquido a violare regioni inesplorate della scala graduata. Insomma null’altro che un prendere atto dell’assoluta normalità di quella prima frangia di giornata.

Fugata dunque anche in quell’occasione ogni parvenza di fenomeni inusuali l’uomo si staccò dal bordo dell’aiuola ruotando sui tacchi e s’avanzò sul marciapiedi spingendo innanzi il ventre prominente come un bastimento in distacco dalla banchina che volgesse la prua al mare aperto, trainato da due cani bassi e lunghi a guisa di rimorchiatori.

Sopraffatto dalla frenesia canina l’uomo affrettò il passo, emettendo un divertito “Oh! Oh!” ad ogni strattone ma di fatto lasciando che le bestie lo sollecitassero per la via fino alla soglia d’un caffè, riconosciuta in base a chissà qual portolano olfattivo.

Ormeggiati i cani al più vicino lampione l’uomo entrò, ordinò un ristretto, prese un quotidiano e nell’attesa scorse veloce le notizie principali.

Nulla di rilievo, a ben vedere, rilevò.

“Avete letto?” lo sorprese una voce alle spalle.

L’uomo si volse richiudendo il giornale “Ah! Buongiorno a voi, collega. Bel bastone che avete quest’oggi!”

“Buongiorno, buongiorno. Dico: avete letto? Là in seconda pagina, terza colonna. In fondo….” insistè l’altro agitando l’impugnatura galliforme del bastone.

L’uomo riaprì i fogli, aspirò l’odore di stampa: “In fondo? Dove?”

“No, m’intenda: in fondo non la dicono mica storta!” e puntò il gallo a indicare l’articolo d’interesse. L’uomo lo scorse rapido.

“Ah! Questa è una sciocchezza!” esclamò ancor prima di concluderne la lettura “Una sciocchezza fuori di misura, a ben vedere.”

“Ci corbellano, codesti signori. Ci corbellano, m’intenda.”

“Come darvi torto?” sentenziò l’uomo e aggiunse “Avete davvero ragione, a ben ved…”. Mentre quell’ultima parola sfumava nell’aria confusa tra il brusio di sottofondo, un corpuscolo grigio macchiò d’improvviso il marmo del bancone, tosto rimosso dal cameriere con uno svolazzar di brindello. Il moto fu tanto lesto da consentire appena d’intravedere il minuzzolo, al punto da lasciar il dubbio che davvero vi fosse stata quella manifestazione, infatti rilevata dal solo addetto alla mescita. “Anzi” s’infervorò il secondo uomo “azzarderei che siamo di fronte ad un…..un….m’intend….” e di nuovo quell’ultima pronuncia s’affievolì, uno sbuffetto di vapore opaco si staccò dalle labbra dell’uomo e leggerissimo prese terra tra le sue scarpe, aggrumandosi all’istante in un garbuglio grigio grande come un bottone da polsino.

I due guardarono il pavimento, poi le rispettive giacche e di nuovo il pavimento. “V’è caduto qualcosa” disse il primo.

“No, nulla” asserì il secondo.

“Vi assicuro….” rincalzò l’altro e fece per chinarsi a raccogliere il misterioso bruscolino.

Mentre il secondo uomo prendeva a tastarsi l’abito alla ricerca di indizi un refolo s’insinuò tra loro, il corpuscolo prese quota davanti agli occhi straniti dei due, scivolò nell’aria e volò via tra piroette e balzelli, leggero come calugine.

“Cos’era?” s’interrogò l’uomo. “Un…un…pelucchio?” ipotizzò l’altro. “L’avevo indosso?”

“Mah!”

I cani all’ormeggio uggiolarono d’improvviso, il padrone lanciò uno sguardo indagatore al lampione e nell’esercizio entrò una donna alquanto appariscente. La freschezza ancora indugiava sul suo volto nell’ultima indecisione prima d’abbandonarlo a stagioni incerte.

I due s’impettirono, dimentichi del pelucchio.

La donna sfilò leggera rivelando dietro di sé l’esistenza di una monaca esile, fino a quell’istante nascosta agli occhi dei due, che immediatamente sgonfiarono il petto e cedettero a un leggero rilassarsi delle membra.

“Buongiorno sorella”

La monaca accennò un sorriso benevolo e s’accostò al banco. “Che si diceva?” riprese il primo uomo.

“Si diceva di quell’articolo.”

“Ecco, sì. Dunque dite sarebbe il caso di replicare?” “Giusto per non lasciar passare questo dileggio.”

“Del maiale non ci lasciano che la sugna, a ben ved…” la parola perse la coda, troncata mentre l’uomo ancora stava muovendo le labbra. Egli s’interruppe, la ripetè ma niente, nessun suono.

Rotolò invece nell’aria un nuovo grumetto di vapore inerte e misterioso, questa volta nel mezzo d’uno sporadico silenzio calato nel locale. Levitò senza peso e con un ghiribizzo sorvolò la monaca, scese davanti ai suoi occhi e le si adagiò sul dorso della mano.

La monaca osservò stupefatta il misterioso oggetto: un ghirigoro grigetto a sua volta composto da ancor più minuti ghirigori che s’aggrovigliavano l’uno sull’altro a formare una bilia appena sfrangiata, come un gomitolo sconciato da un gatto, irto di peluzzi finissimi che parevano fil di ferro. Al tocco non rivelò traccia di corporeità: il minuzzolo era di nulla consistenza, si sfece come un cilindretto di cenere al sommo della sigaretta, un edificio quasi immateriale costretto alla coalescenza in virtù di non si sa bene qual forza fisica.

I due uomini ebbero appena il tempo di fissare muti l’oggetto che un nuovo spiffero lo sperse via.

Quel giorno tra gl’invisibili pollini l’aria cominciò a cullare anche quei due bruscolini immateriali, portandoli su, lontano dai clamori umani, sopra le vette vegetali del parco e ancora in alto dove altre correnti li precipitarono in basso e poi li spinsero innanzi a lungo, finchè l’aria attorno si fece carica di umori salmastri e l’onda marina li prese infine in ultima accoglienza.

Nessuno avrebbe saputo in seguito indicare in quella mattina tanto ordinaria il primitivo manifestarsi della stranezza, al pari dei tanti fenomeni che principiano nel nulla e finiscono per cadere sotto i sensi umani non appena hanno dimensione percepibile, eppure già sono tanto immensamente più grandi di quel primo infinitesimo germinare perso nell’ignoto.

L’inedita affezione fonetica venne perciò riconosciuta come tale solo quando ormai fu inevitabile ammetterne l’esistenza.

Per quanto ipotesi priva di ogni fondamento scientifico e persino con estrema difficoltà spiegabile addentrandosi nei gineprai della psiche umana, si riconobbe alla fine che di collettivi casi di afonia dovesse trattarsi, forse prodotti da una specie di inconscia ribellione all’uso di talune intercalazioni. Queste, si argomentava, s’incistidavano a mezzo dei discorsi come se avessero vita propria e riuscissero a trasmettersi da un individuo all’altro facendosi lascivamente carpire dall’orecchio dell’ascoltatore, da lì penetrando poi nei vacuoli del suo cerebro.

In quella sede s’annidavano pronte a intrufolarsi nelle verbalizzazioni, sopraffacendo ogni volontà dell’oratore e scivolando oblique tra una parola e l’altra fino a uscirsene sfacciate e del tutto inutili. Ma, astute, alla pronuncia liberavano succosi umori tra una palatale e una labiale. Il dicitore, irretito, ne gustava l’articolazione e, sebbene consapevole del tranello, già si disponeva a ripetere l’esperienza. La soppressione messa in opera dall’inconscia volontà di preservare il lessico da quelle impertinenze per mezzo di improvvise afonie appariva anche più balzana dell’ipotesi sulla loro origine.

Poi qualcuno cominciò a sospettare l’esistenza d’un nesso tra quei gomitoletti grigi che apparivano a mezz’aria e le afonie, venendo subito ridicolizzato.

Tant’è vi fu chi condusse esperimenti. Ben al riparo dal generale sbeffeggio furono sperimentati artificiosi discorsi farciti da ogni sorta di intercalazioni, ottenendone sciami di ghirigori bigi, spesso addensati in favi penduli dai menti delle cavie, per l’occasione reclutate tra teatranti, doppiatori e conduttori radiofonici, tutti professionisti dotati di scintillante pronuncia.

Fu chiaro.

Inspiegabile, prodigioso, frustrante ma chiaro: le intercalazioni appena pronunciate da suoni si tramutavano in quei grovigli d’un colore evanescente, quasi immateriali ma invero fastidiosi e importuni. S’attaccavano ai vestiti come peli di gatto, si intrufolavano tra i capelli, svolazzavano e piroettavano senza posa, talvolta chetavano negli angoli ma appena ghermiti dai flussi aerei ripartivano indiavolati.

Qualcuno, ingeritili per accidente, s’allarmò temendo i peggiori effetti. La scienza medica fu pronta a sgomberare il campo da inutili paure: dei viluppi nulla rimaneva una volta entrati nei corpi, nessuna traccia, neppure un’esigua alterazione fisiologica.

Insomma era un impiccio, una bega di non gran conseguenza ma pur sempre una seccatura che s’assommava al manipolo di quelle già presenti nel viver quotidiano.

Del resto era vero che con minima attenzione a ciò che s’era in punto di dire si poteva eliminare il fastidio, una risoluzione che ciascuno poteva praticare senza affanno né costo, vantaggio che di rado si presta.

Il formicolare delle attività umane non fu perciò intaccato dalla novità, che in breve passò di categoria finendo tra le manifestazioni corporee legate all’esistenza di ognuno, come la crescita delle barbe, lo starnutire, l’allungarsi delle unghie e così via.

Tuttavia col passar del tempo ci si rese conto che il fenomeno non era circoscritto alle parole inutili che uscivano dalle labbra, agli intercalare ed ai termini di gran moda abusati in ogni circostanza ma che anche vocaboli all’apparenza fruiti in tutta onestà e in piena significanza subivano talvolta la medesima sorte.

I grovigli color cenere fioccavano lì per lì nel mezzo di accorti proloqui, che risultavano perciò infestati da imbarazzanti afonie, scambiate sulle prime per subitanei malfunzionamenti dei dispositivi d’amplificazione nelle sale da conferenza, nelle aule scolastiche, nei consessi politici e nell’officiare religioso.

Ciò generava un duplice ordine di problemi: somma confusione in ogni espressione verbale, con incessanti richieste di ripetizione da parte di uditori innervositi quando l’oratore non era lesto nel ribadire le parole svanite appena fuori di labbra e l’ingombrante presenza di quei gomitoli grigi che prendevano a rotolare e danzare indiavolati al minimo moto d’aria. Se nel primo caso l’onere del rimedio ricadeva del tutto sulla prontezza oratoria per il secondo inconveniente parve risolutivo assoldare personale dalle pronte abilità ginniche e fornirlo di capienti sacchi in cui imprigionare gli irrequieti gomitoli.

L’inconveniente, in fin dei conti trascurabile a fronte di ben più gravi preoccupazioni che affliggevano la convivenza umana, fu da taluni letto con un barbaglio di immarcescibile ottimismo e subito raccolto dalle più solerti frange politiche del momento: ecco una nuova esigenza cui dedicarsi con presta mano, la contingenza richiedeva nuove strutture, emergeva la necessità di impiegare forze fresche, nuovi posti di lavoro….e tutti d’accordo per una volta sul da farsi.

I costi ricaddero sulle comunità che sopportò senza gran fastidio: mancando l’individuazione di una causa o di un responsabile la novità fu accettata supinamente e in fin dei conti anche con certo gradimento considerata l’inopportunità degli intriganti gomitoli che iniziavano a diffondersi in modo preoccupante.

Si organizzarono schiere di spalatori, di norma al lavoro in coppia: l’uno munito di un gigantesco badile e l’altro di una smisurata ramazza. Ad essi era assegnato il compito di radunare e rimuovere i gomitoli, compito d’impegno nelle affollate aree urbane e financo arduo presso taluni edifici evidentemente afflitti da eccessi di vana loquacità. Gli spalatori, in esausta lotta contro venti e correnti d’aria, ammucchiavano i gomitoli e li sospingevano verso le strade e da qui giù nei tombini che li inghiottivano senza posa come fossero rivoli di pioggia.

Ma la rete fognaria, gravata di un compito ben diverso da quello per cui era stata ideata, si mostrò del tutto inadeguata a smaltire quella materia senza peso in luogo dei consueti liquidi e, presto repleta, prese a vomitarli nelle zone più depresse delle città, dove si formavano mutevoli plaghe cineree.

I venti ne stracciavano fiocchi larghi che s’innalzavano tra le case per deporsi sbrindellati su tetti e davanzali come una nevicata al contrario. Il fenomeno, non privo di un suo fascino, solleticava l’attenzione degli uomini che si scoprivano, loro malgrado, con l’occhio avvinto ai fiocchi che levitavano verso grondaie e comignoli e poi ancora su tra prilli e sbiechi al capriccio dei moti d’aria. Il brulicare dei grovigli si estese così dai verbosi centri cittadini alle periferie e da queste traboccò nei pur taciturni sobborghi fino a contaminare pian piano le campagne, dove l’occhio dei contadini sondava gli orti nel timore di scoprire i malaugurati grigiori a soffocare germogli e a coprire le uve bramose di sole.

Apparve chiaro che altre e più radicali soluzioni andassero tentate.

La marea grigina doveva esser fermata ad ogni costo e prima che giungesse a soffocare ogni attività. Senza troppe esitazioni si decise di tradurre in mare tutto quell’immane groviglio senza senso, notando con vittoriosa soddisfazione che le acque oceaniche non solo scioglievano al primo lambirli gli odiati garbugli ma parevano quasi esserne avide e ghermirli con voluttuosa risacca per trascinarli nelle profondità più oscure.

Trovata finalmente la soluzione a tanto patire ci si industriò nella ricerca di ottenerne il massimo benefizio: a spese di campi e boscaglie furono costruiti viali di insolita larghezza diretti verso le coste, dove veicoli di dimensioni al limite delle possibilità tecnologiche e quasi soverchiati da strabordanti masse cineree transitavano in lenta processione tra due andane di cumuli, persi nei sobbalzi del tragitto.

Dunque il problema di maggior impellenza parve risolto o quantomeno condotto entro più accettabili limiti, benchè la soluzione rappresentasse solo una parziale rimozione del fenomeno.

Continuava infatti a regnare la confusione nelle comunicazioni verbali, dove ogni incauto pronunciamento non ben precisamente calato nel contesto finiva con lo svanire prima di giungere agli orecchi.

Si studiarono metodi di verbalizzazione sempre più scarni e sintetici, ogni linguaggio si spogliò di inutili forbiture e precisazioni, i sinonimi furono messi al bando, i concetti scarnificati in asettiche codifiche dal significato sempre più efficace. Caddero per sempre sfumature di senso e termini ambigui, gli avverbi furono fulminati per primi da veri e propri plotoni d’esecuzione e sparirono dai vocabolari, questi ultimi sempre più sottili e leggeri. Nelle aule scolastiche l’esercizio alla sinteticità divenne materia irrinunciabile.

Furono varate apposite leggi e regolamenti per ridurre quanto possibile l’uso improprio delle parole, qualcuno propose che chi fosse sorpreso ad usare le perniciose intercalazioni dovesse venire incarcerato ma i dettami democratici prevalsero sulla tutela del bene comune osservato che, in fin dei conti, era la coscienza verbale che doveva venir elevata e non la restrizione della libertà d’espressione. Il principio faceva leva anche sulla buona riuscita del conferimento nelle fauci oceaniche della aborrita massa, che di fatto i mari continuavano a divorare senza cenno di sazietà.

Curioso fu il fatto che l’industria della moda riuscì a volgere a proprio favore il drammatico frangente inondando i mercati di abiti grigini, su cui l’accidentale impigliarsi di uno dei temuti grovigli sarebbe passato inosservato. Ecco che ci si poteva anche consentire uno sbrodolamento verbale senza essere additati e occhieggiati con riprovazione!

Nonostante gli sforzi avessero prodotto innegabili successi i luminari più accorti fecero notare che il fenomeno, per quanto strano, mostrava una sua certa evoluzione. E purtroppo verso il peggio.

Politici, istituzioni e mezzi d’informazione s’affrettarono a mettere in dubbio tale impressione; tuttavia, quando gli studi radiofonici e televisivi iniziarono ad essere invasi da cumuli grigi che crescevano inarrestabili ed a ritmo sempre più rapido, dovettero infine cedere ogni infondato ottimismo.

La plaga si fece inarrestabile, contaminò ogni parola, anche le più dense e arcaiche scomparivano a mezz’aria e se ne andavano via in un groviglio scolorito, lasciando vuoti amari nei giorni un tempo fitti di voci.

All’umanità sbigottita, smarrita senza rimedio al montare dell’infinità bigia, non restò che ammutolire e affidare ogni comunicazione alla scrittura ed al gesto, come avrebbe fatto un popolo di sordi e muti, rassegnati a consegnare il mondo al silenzio di una nevicata di grovigli cinerei, nella speranza di una spontanea guarigione, tanto agognata quanto improbabile.

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