06/08/21

TRE MOSCHE

Questo è uno dei "Tesori di Guido" raccolti nella sezione d'archivio ad essi dedicata

 

L'attività umana può apparire del tutto inspiegabile,

dipende dai punti di vista.

 

TRE MOSCHE

(di Guido Ghezzi)

I

L’aria era densa di calore ed umidità.
Le ingiallite pale del coloniale l’affettavano con fatica.
La velocità di rotazione era a tal punto bassa da rappresentare un trascurabile disagio.
Anzi, un disagio che contemplava l’indiscutibile vantaggio di poter accedere, nell’arco di una piena rivoluzione, ad una completa percezione dello spazio circostante senza sforzo alcuno.
Tanto bastava a tre mosche sarcofaghe posate su una delle pale per mantenere la posizione, fomite di fastidiose vertigini per altre forme animali meno opportuniste e più evolute.
A dirla tutta, il triumvirato si riteneva anzi fortunato fruitore di una sistemazione di raro privilegio, certamente destinata ad essere oggetto di qualche insidia. Insidia che i ditteri si reputavano tuttavia ben attrezzati a fronteggiare.
Primariamente lo strato d’aria che ristagnava al di sotto del coloniale non poteva impunemente essere attraversato da altri che non potessero soddisfare la triplice condizione di possedere almeno un paio d’ali e bilancieri, un’agilità di volo straordinaria ed un corpo tanto minuscolo da non rappresentare alcun motivo di turbamento per le due figure umane presenti nella stanza.
Quest’ultime poi, quand’anche avessero ritenuto di qualche interesse intervenire sulla breve vita dei tre innocui insetti, avrebbero dovuto mettere in atto un’offensiva non priva di difficoltà per colmare il vuoto tra le loro teste ed il coloniale.
In ogni caso l’evidente sonnolenza che gravava gli umidi corpi accasciati sulle sedie dietro alle scrivanie di legno scuro, pareva rappresentare al momento una soddisfacente garanzia.
Ma anche nell’occorrenza dell’improbabile elevarsi di un’iniqua minaccia di soppressione delle loro vite, il tempo di reazione delle mosche, la loro indiscussa abilità di volo nonchè l’ampiezza dello spazio vuoto disponibile per conformare l’eventuale fuga, concorrevano a definire solidi margini di sicurezza in cui confidare.
L’altrimenti irresistibile attrattiva rappresentata dalla sottostante presenza di estese superfici ricoperte da prati di polvere macchiati d’umidità e disseminati da particelle alimentari di varia natura, submillimetrici detriti e antiche tracce di zuccherose bevande, andava al momento ignorata in attesa di più rassicuranti opportunità.
Opportunità che non avrebbero tardato a manifestarsi con l’abbandono delle scrivanie da parte delle figure umane una volta terminato il loro orario d’ufficio.
Lo stoico sforzo, sostenuto in dignitoso silenzio dalla triade, avrebbe certamente trovato generoso ripagarsi una volta raggiunte in totale sicurezza le invitanti plaghe, eredità dell’inazione umana.
All’accurata analisi fino al momento condotta dalla pragmatica trinità non era peraltro sfuggita la copiosa presenza dell’evanescente velo di sudore sugli ampi lembi di cute umana che gli indumenti lasciavano esposti. Simili ricchezze saline così tiepidamente diluite costituivano un richiamo ancor più invitante del precedente, cui il grigiostriato trio resisteva con altrettanta impassibilità se non fosse stato per un breve fremere d’ali che in successione turbava l’immobilità degli insetti, come se essi agissero in risposta ad un’invisibile corrente che ne attraversasse i nervosi corpi.
Raggiungere i liquidi giacimenti, tuttavia, appariva ancor più rischioso che tentare una sortita alla volta delle plaghe saccarine occhieggianti dai tavoli. Se manifestamente diffusa era infatti l’esistenza di anfratti, angosture, spigoli d’ombra, fessure, vacuità ed altri occasionali rifugi tra la enorme quantità di voluminosi documenti, cartelle sformate dal peso di altre soprastanti cartelle, scatole squarciate dal traboccare cartaceo e sfiniti faldoni disseminati ovunque che potevano fungere da testa di ponte prima di tentare una saettante acrobazia alla volta delle epidermidi imperlate, l’istinto e l’esperienza invitavano a dismettere avventatezze che avrebbero potuto indurre le figure umane a scatenare ben note reazioni, scomposte e distruttive. Reazioni tanto potenti quanto
ingiustificate, visto che di innocente e discreta suzione di fluidi già scartati dai corpi si sarebbe naturalmente trattato.
Una vigile inazione rimaneva dunque di gran lunga la migliore tattica cui attenersi, rinviando al periodo di umana vacanza ogni soddisfazione alimentare.
La pazienza necessaria a sostenere l’accorta strategia richiedeva nondimeno un grande autocontrollo individuale ed una unitaria condivisione d’intenti, condotta tacitamente accettata e solidalmente osservata dalle tre mosche. Qualsivoglia distrazione non trovava spazio nel lento rivolvere del passivo terzetto, che puntualmente passava in rassegna il sempre medesimo panorama presentato ai loro sensi dalla inesausta rotazione del coloniale.
Al lento sfilare dello sterminato riquadro della finestra, oltre il quale si stendeva l’immota e pallida viscosità del cielo equatoriale, fittamente segmentato dalla guardia di una crudele zanzariera, seguiva la lunga, confortante e slabbrata ferita che in essa s’apriva in prossimità del telaio, varco fin dalla prima speditiva ricognizione eletto dagli esapodi a estrema via di fuga.
Subito dopo, a mezzo del muro, la fastidiosa riflessione della luce si stendeva su una vasta superficie le cui regioni variamente ingrigite assumevano la forma di un fiero cipiglio dall’occhio fisso a distanze insondabili e corredato di sigaro, barba e copricapo.
Al susseguente serpeggiare di grandi screpolature nell’intonaco s’alternavano umide e stinte praterie di muffe grigioverdi, inghiottite dal mortale pencolare di veli ragneschi nell’estremo spigolo presso il malarico soffitto.
L’inspiegabile immobilità di un secondo coloniale maculato da farinose plaghe, sintomi di una qualche misteriosa affezione, e l’ombreggiare di un sicomoro oltre un’ultima finestra, concludevano il dipanarsi narrato dalla rivoluzione.
Un allarmante ma breve sussultare accompagnato da un secco lamento manifestava l’indecisione del coloniale di residenza prima dell’ennesimo rivolvere, vano moto di ribellione del marchingegno all’indispensabile funzione assegnatagli.
L’istintivo permanere nello stato di latente vigilanza richiedeva alla trimurti l’attento accertarsi dell’invariato scorrere degli elementi circostanti ad ogni rivoluzione.
Al conforto dispensato dall’immutabile periodare s’accompagnava rapido un personale nettar d’ali, prodromo al ripetersi del fenestrato dilatare e l’immota, pallida viscosità del cielo equatoriale, fittamente segmentato dalla guardia di una crudele zanzariera….
Del variato grigio mirare a remote regioni….
Dello scorrere di setolose muffe come fluire verticale all’inghiottitoio della funebre trappola….
Dell’inerte crisalide del coloniale gemello e del bruno sicomoro…..
Analoga stremante periodicità pareva affliggere l’operato delle figure umane, rivelata al terzetto dall’osservazione prolungata degli accadimenti confinati nella sottostante porzione di spazio.
Un ticchettio variamente ritmato si originava con costanza nello spazio ignoto della stanza attigua, varcava lo stretto della porta e fluiva nell’ufficio, s’avvitava in una flebile cavitazione risalendo verso il coloniale, lo lambiva e ricadeva in forma d’invisibile pulviscolo atmosferico.
In ossequio a misteriose urgenze di presumibile origine esogena, il ticchettio s’interrompeva ad intervalli quasi regolari. L’improvviso silenzio precedeva l’ingredire nella stanza di una terza figura umana. Questa recava un foglio occupato da una fitta popolazione di caratteri impressi ad inchiostro nero. La figura, apparentemente afflitta da una pesantezza di movimenti tale da farne presupporre l’immediato collassare al pavimento, con estremo sforzo posava il foglio in vetta ad una vertiginosa pila di identici elementi, a sua volta eretta sopra un faldone adagiato presso il bordo della scrivania più prossima alla porta.
L’ardita architettura della composita costruzione cartacea ed il suo sbieco pencolare sull’abisso oltre il bordo della scrivania, lasciavano presupporre che essa fosse il frutto di spericolate ed inedite soluzioni statiche messe in campo dall’esausto artefice in spavalda sfida alla gravità.
L’occupante della scrivania, come riscuotendosi da un incipiente torpore, sollevava il capo chino su un faldone aperto arricciando lievemente le narici ornate da una impalcatura in tartaruga, prendeva
il foglio, ne scrutava brevemente i caratteri, annuiva, con silenzioso gesto congedava il latore e deponeva il foglio su una delle altre pile allineate sulla scrivania.
Il nunzio scompariva nella vacuità oltre la porta ed il ticchettio tornava a manifestarsi con infallibile concomitanza, al punto da lasciar sospettare che lo stesso nunzio ne fosse il materiale creatore oppure che il ticchettio altro non fosse se non lo scandire di un misterioso cronometro fermato ad ogni incipiente sortire del nunzio dalla propria stanza e riattivato dal moto contrario.
Talvolta, ad interrompere il ripetitivo scandire degli avvenimenti, l’incoronato in tartaruga si alzava e, con articolata e misurata manovra, sfilava il foglio basale da una delle pile. Dopo un breve riesame il foglio veniva traghettato sulla terza scrivania, al momento non occupata, ovvero dirottato sulla scrivania occupata dalla seconda figura, anch’essa assediata da formidabili baluardi di faldoni, turrite mura cartacee e polverosi fortilizi documentali.

 

II

Nel seguitare delle operazioni svolte dalle figure umane secondo la consolidata sequenza di avvenimenti s’intrufolavano, per la verità, taluni occasionali momenti di autentica novizia, che assumevano la connotazione di eccezioni ai paradigmi del noiato periodare. In quanto tali, le eccezioni stesse si sostanziavano comunque in tipologie ben definite e minimalmente variate.
Accadeva quindi che alla scrupolosa sorveglianza della triarchia si manifestasse l’improvviso ed immotivato guizzare della figura ornata dell’impalcato di tartaruga, fregio che presumibilmente ne palesava l’attribuzione di funzioni di comando. Essa spingeva all’indietro la sedia, abbandonava la scrivania e snodava cadenzati passi alla volta dell’angolo accanto alla porta. Qui si fermava e, colta da un’improvvisa paralisi, fissava per lunghi istanti un rilucente bastoncello appeso al muro, quindi sembrava riscuotersi dall’immobilità, enunciava con voce ferma una criptica formula cui la seconda figura rispondeva con un misurato scuoter di capo e tornava al proprio posto. L’improvviso turbamento dei tre sarcofagidi all’apparire di un largo drappo estratto con gesto fulmineo dalle tasche svaniva con altrettanta rapidità non appena la figura, sospirando profondamente e reclinando un poco il capo, lo usava per tamponarsi la nuca madida.
Ben altra reazione suscitava l’inatteso ingresso nella stanza di una ulteriore figura, avvolta da un’invisibile nube di fragranze agrodolci, diffuse dalle labbra circolari d’una grande brocca che questi posava sulla scrivania non occupata.
Le due figure interrompevano tosto la loro occupazione, lasciavano le scrivanie ed esibendo un pigro rituale di silenziosi gesti comuni s’avvicinavano al tavolo con la brocca. Ristavano un poco scambiandosi formule in tono di riserbo, appena increspato dall’incurvarsi delle labbra in brevi cenni di svago. Fugaci sguardi tentavano la finestra in uno svogliato levitare verso la cruda luce oltre la zanzariera, venendone però respinti ed esaurendosi in un fiacco slittare sui muri.
Infine la prima figura, in madido sfinimento d’invisibili vinchi, distaccava l’impalcatura di tartaruga dalla narici e la deponeva, ripiegata, nell’abisso insondabile d’una tasca, licenziando così una parentesi di parità nella rigida gerarchia di comando.
Seguivano scambi di stanche formule a mezza voce e lente oscillazioni del capo, estensioni delle braccia e massaggi alla radice del naso, evidentemente elementi preparatori del rituale in procinto di compiersi.
Infatti subito dopo, preceduta da un solenne brandire della brocca, una duplice cascata di frescura fruttata empiva in successione due grandi cilindri trasparenti, sollevando uno strato di spuma sussurrante. Numerose gocce scorrevano come cera liquefatta sul ventre della brocca e da questo si allargavano sul piano della scrivania in profumate polle circolari, salutate dai ditteri con un compiaciuto sfregar di pulvilli.
Le due figure sorbivano poi la paradisiaca bevanda a brevi sorsi e inghiottendo con evidente soddisfazione.
Terminato il cerimoniale i cilindri imperlati venivano abbandonati sul tavolo rinnovando la cupidigia dell’aerea triarchia, l’impalcatura di tartaruga veniva nuovamente indossata e le scrivanie occupate per tornare alle consuete mansioni.
Talvolta, in modo del tutto improvviso, si manifestava un sonoro trillo che giungeva con istantaneo propagarsi a sconvolgere la viscosità della massa d’aria all’interno della stanza.
La figura con l’impalcatura del comando mostrava di mal tollerare l’evenienza e veniva colta da una frenesia del tutto straniera alla precedente calma, frenesia che l’induceva a posare la mano destra su di un’informe scatola nera giacente all’angolo della scrivania, a svellerne la parte sommitale da cui pendeva una lunga corda attorta ed a poggiarla all’orecchio.
Trovando misteriose necessità d’attenzione nella scatola così premuta all’orecchio, la figura sembrava inseguire con lo sguardo chissà quali riflessioni, ristava inebetita vergando complessi labirinti sulla pallida superficie di un foglio, proferiva all’occorrenza formule dalla cadenza rituale e tornava in silenziosa contemplazione. In risposta poi a un misterioso ed inudibile segnale ricomponeva la scatola e tornava a sprofondare nella propria occupazione ovvero, senza apparente motivo, abbandonava la scatola decomposta sulla scrivania e lasciava la stanza per rientrarvi dopo una breve assenza. Tornava quindi ad auscultare la scatola e a ripetere nuove formule divinatorie prima di ricomporla definitivamente.
Nel sovrano intorpidimento l’improvviso sventolare di un mazzetto di fogli da parte di una o dell’altra figura e il repentino generarsi di deboli vortici d’aria costituiva motivo d’allarme per le mosche, che tuttavia tornavano confortate al loro vigile stato di attesa non appena il nervoso moto si giustificava con l’unico scopo di sommuovere locali brezze attorno ai corpi roventi. Il molle esalare dell’autore del gesto diveniva rapidamente affannoso, ulteriori liquidità affioravano sull’epidermide e il mazzetto di fogli veniva tosto lasciato cadere con gesto rinunciatario, accompagnato da un umido sbuffare.

 

III

L’allontanarsi dalla breve frescura delle prime ore mattutine presto assumeva i contorni di una febbre stordente che penetrava dalle finestre e colava lungo i muri, come se l’aria cedesse sotto il proprio peso, affaticata, afflosciata, sfiancata in un accasciarsi senza forma.
Il madido scivolar via delle ore fiaccava ogni più debole movimento, un sudario di tessuto immaterico, pesante, soporoso e invincibile andava avvolgendosi con mollezza equatoriale sui corpi alle scrivanie, i gesti ulteriormente rallentati languivano nell’emissione di fluidi epidermici pur approssimandosi le membra ad una comunque irraggiungibile condizione di stasi motoria.
Il nunzio, cui il periodico tragittare tre le due stanze richiedeva ora un maggiore salasso di energie, appariva ad ogni ingressione sempre più prossimo a soccombere allo sfinimento. Con estrema pena immolava le ultime forze per deporre il rituale foglio sulla pila all’angolo della scrivania e s’allontanava in silenzio.
Allungata da tempo sul muro dietro la scrivania vuota, l’ombra immobile del vasto sicomoro pareva trattenere in ipnotico inganno lo scorrere del tempo, all’apparenza indeciso se continuare nel proprio instancabile scorrere o piuttosto intraprendere una avventurosa retromarcia, evento che difficilmente avrebbe turbato la quiescente attesa delle tre mosche, per le quali la circolarità degli accadimenti non costituiva altro che benvenuto conforto.
Per la verità un fremito straniero aveva iniziato a pungolare il paziente trio, in concomitanza con l’incurvare dell’ombra del sicomoro.
Un pizzicore diffusosi nell’aria, lento e inatteso, andava scuotendo l’apice delle setole dorsali, inducendo nervosi rivolgimenti per accertare l’assenza di elementi di minaccia. Nonostante l’evidenza negasse qualunque allarme, la fastidiosa sensazione andava facendosi sempre più netta ancorché priva di materialità. Ad acuire il disagio contribuiva l’apparente indifferenza delle figure alle scrivanie, del tutto immuni all’aereo pizzicore nonostante fossero abbondantemente provviste di setole.
Il sospetto che il fenomeno preludesse ad accadimenti non inscritti nel periodare consolidatosi fino a quel momento, accadimenti ancora giacenti oltre l’orizzonte percepibile, non poteva essere ignorato e richiedeva d’essere anteposto ad ogni altra attenzione in virtù di un’insopprimibile inquietudine, ormai obliterante ogni primitivo interesse per le plaghe alimentari sottostanti.
Passò così inosservato agli scrupolosi insetti l’ondeggiare sinistro della vertiginosa pila di cartelle e documenti che seguì l’ennesimo poggiar di foglio recato dall’esausto nunzio.
Ondeggiare che arduo sarebbe stato attribuire all’infinitesimo effetto del nuovo aggravio all’apice dell’architettura cartacea piuttosto che all’improvviso refolo tracimato dalla chioma del sicomoro e fluito nella stanza attraverso le finestre.
Quale che fosse stata la causa fisica a promuovere l’improvviso abbandono della condizione d’equilibrio della sbilenca pila, l’attenzione delle tre figure venne comunque risvegliata, rendendo finalmente giustizia al subitaneo turbamento dei tre sarcofagidi.
L’oscillare dell’arditezza cartacea fu per un breve istante l’unica manifestazione di moto nella stanza, mentre i due occupanti delle scrivanie ed il nunzio boccheggiavano immobili e racchiusi entro pelli tramutate in granito, scorze rigide avvolte attorno a ceppi sospesi in un istante, eradicato da ogni sequenza temporale.
L’obelisco si torse in un estremo sforzo di adattamento della struttura alla nuova sollecitazione. Brevemente vittoriosi sull’imposizione delle reazioni vincolari i fogli slittarono l’uno sull’altro, innumeri stati d’equilibrio vennero raggiunti, mantenuti per infinitesime quantità temporali e poi persi, la gravità attese impassibile lo svolgersi naturale del gioco di forze fino all’estremo propendere dell’apice sull’abisso ed infine risucchiò l’intero manufatto in uno scompaginato arcuare verso il pavimento.
Al crollo seguì un libero sfarfallare di fogli ed un lieve sbuffare di polvere.
L’evento, benché di assoluta novità, non assunse particolare rilievo per le mosche, tormentate dall’intermittente e misterioso pizzicore così subdolamente insediatosi nella loro roccaforte. Opposta reazione ebbero le figure umane sottostanti. Trascorso un breve periodo di esitazione iniziarono a scambiarsi brevi commenti e considerazioni in tono deciso, che si fece rapidamente brusco e secco, accompagnato da sguardi sbiechi e gesti di palese insofferenza.
All’irritata parentesi concertativa seguì il definitivo abbandono delle attività fino al momento espletate.
Le tre figure iniziarono a soppesare l’immane massa di fascicoli sedimentata nella stanza, dapprima con circospezione, quasi si trattasse d’ammansire una fiera prigioniera nella stanza. Toccavano, palpavano, saggiavano l’equilibrio, scuotevano caute e guardinghe.
Pile di cartelle scolorite vennero quindi traghettate da un allineamento all’altro, volumi e volumi di incartamenti furono rimossi dal pavimento per essere innalzati su altri volumi, faldoni squinternati trovarono il momentaneo sollievo di nuovi lacciuoli, altri, meno consunti, divennero fondamenta di nuovi baluardi, enormi varchi s’aprirono nelle antiche muraglie cartacee, nuove torri sorsero nel tentativo di raggiungere un più solido ordine generale e scongiurare indesiderati crolli.
Ben presto ogni iniziale titubanza fu abbandonata, la fiera aggredita con decisione, quasi con spavalderia, finchè una cieca frenesia s’impadronì delle figure umane, come se con l’aria greve avessero inalato un aeriforme sortilegio.
Preda di una scomposta e sincopata danza i corpi si caricavano ora fino all’inverosimile, si lanciavano in vacillanti spostamenti e incerti traslochi privi di un chiaro disegno. Nel trasporto attraverso gli stretti corridoi rimasti sgombri si moltiplicavano gli urti, il carico rovinava a terra accompagnato da sonore esclamazioni, l’agitazione aumentava, le figure ansimavano annegate in un parossistico imperlare cutaneo.
Vi furono altri crolli, nuovi slittamenti, inevitabili collassi e polverose catastrofi gravitative mentre ripetuti colpi di vento filtrati dal sicomoro irrompevano nella stanza sollevando nugoli di fogli.
Al di sopra di quell’insensato smaniare, tenacemente abbarbicati all’esclusivo rifugio i tre ditteri non erano immuni all’ansia, benchè dovuta a differente e ancora misteriosa causa.
Nonostante un isterico e compulsivo sfregamento di fianchi, setole, membrane alari e pulvilli, l’ostile vellicare non cessava di tormentare il terzetto, anzi dopo l’iniziale addensarsi all’apice delle setole dorsali s’era ormai diffuso alla totalità dei corpi, neppure niffo, stigma e palpi ne erano dispensati. Nel tentativo di seminare il vile nemico e la sua incorporea offensiva il trio zampettava nervoso lungo la pala del coloniale, vibrava le ali, s’avvitava in fulminee piroette e funamboliche torsioni.
Nel frattempo l’ombra del sicomoro era scomparsa dal muro, inghiottita dal grigiore calato su ogni superficie. Il lattescente chiarore equatoriale s’era mutato in una materia densa e cupa che colava inesorabile traboccando da ignote lacerazioni celesti. Colpi di vento sempre più violenti squassavano il gigantesco albero, in lotta per sottrarre le proprie membra ai feroci tentativi di mutilazione, la zanzariera si gonfiava e veniva risucchiata in un palpitare strenuo, invisibili forcipi ne slabbravano senza pietà la ferita allargandola sempre più, rendendola sempre più invitante per i tre insetti, inebriati dal pizzicore intollerabile, disorientati dall’aggrovigliarsi dell’aria, sopraffatti dall’incubare dell’ignoto pericolo.
All’improvviso un bagliore livido sfrangiò l’aria.
L’istinto torse le teste delle figure umane verso le finestre, le ombre dei corpi s’impressero immobili sui muri plumbei, accese dall’istantanea cascata fosforina e subito ingoiate dal crepitante boato seguente.
In fulminea successione le tre mosche abbandonarono il loro aereo fortilizio e saettarono via verso la palpitante zanzariera, verso il pulsare mitralico dello squarcio d’angolo, verso il salvifico cancello ora aperto, ora chiuso.
Ora aperto, ora richiuso.
Ora aperto
sull’ondeggiare bruno dell’infinito sicomoro.

5 commenti

  1. Alberto Salvagno

    Un quadro delizioso che mi sono immaginato di filmare in soggettiva dalla lenta pala del ventilatore. Ovviamente una luce color kaki è diffusa in tutto l'ufficio, mentre il sicomoro e la terra arida e polverosa che si intravvedono attraverso la zanzariera risultano bruciate di almeno un paio di diaframmi. Complimenti!

  2. Guido

    Grazie Alberto! Perfettamente in sintonia il tuo occhio fotografico!

  3. Daniela

    In effetti quello di Alberto non è un occhio fotografico qualunque…

    https://www.salvagno.eu/biografia.htm

     

  4. Daniela

    Non sono parole mie, ma di un amico al quale ho fatto leggere questo racconto prima di pubblicarlo (e le condivido in toto)...
    "Un ufficio del catasto con tre impiegati e altrettante mosche, nell'imminenza di un temporale estivo, in sei pagine di fragrante virtuosismo. Credo di avere trovato la definizione che descrive questo stile: scrittura frattale. Si viene trascinati, risucchiati nel vortice di descrizioni sempre più minuziose, iridescenti  e in continuo fluido movimento. Una sorpresa dentro l'altra, proprio come lo sviluppo infinito delle forme autosomiglianti"

    Aggiungo che provo la stessa sensazione "frattale" non solo all'interno di un singolo racconto, ma anche via via che leggo nuovi racconti. E l'ultimo (appena finito di leggere e non ancora pubblicato) altro non è, per me, che l'ennesimo termine di una serie che ormai immagino infinita e piena di gradite sorprese... come quella di Fibonacci, tanto per fare un esempio "a caso"...

    Insomma, Guido, ti tocca continuare a sfornare racconti (ma chissà quanti ne hai già sfornati) ed essere all'altezza di aspettative sempre più alte! :wink:

  5. Guido

    Complimenti Alberto! Ho curiosato un po' tra i tuoi scatti....

    Per quanto riguarda i racconti spero di non deludere i lettori con i prossimi.

Lascia un commento

*

:wink: :twisted: :roll: :oops: :mrgreen: :lol: :idea: :evil: :cry: :arrow: :?: :-| :-x :-o :-P :-D :-? :) :( :!: 8-O 8)

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.