14/04/22

LE NOTE ERRANTI

Questo è uno dei "Tesori di Guido" raccolti nella sezione d'archivio ad essi dedicata

All'occasione mi affido alla compagnia della musica. Ogni volta mi ritrovo a pensare che dietro a quelle note c'è stata (o c'è) una vita. Una mente e un corpo con una loro storia, una storia piena di dettagli, di minuti passaggi tra vicende di varia sostanza, sogni, angosce, elevazioni di spirito e ricadute, come un po' tutti ne abbiamo. Tutto sta in quelle note, in un pugno di vibrazioni trasmesse all'aria e per mezzo dell'aria diffuse a beneficio di ascoltatori del tutto sconosciuti all'autore. Eppure quella musica è un ponte, che unisce attori lontani nel tempo e nello spazio e che, nel presente caso, han trovato comune approdo in un racconto.

 

LE NOTE ERRANTI

 

 

¿Qué es la vida? Una ilusión,

una sombra, una ficción,

y el mayor bien es pequeño:

que toda la vida es sueño,

y los sueños, sueños son.

 

Cos’è la vita? Un’illusione,

un’ombra, una finzione,

e il bene maggiore è poca cosa:

perché tutta la vita non è altro che un sogno,

e i sogni, non sono altro che sogni.

 

Pedro Calderòn de la Barca

 

I

Un’allodola.
Come un’allodola la Governante preveniva l’alba, quasi ne avesse un antecedente e misterioso sentore. Lesta scivolava su e giù per le scale, dentro e fuori delle stanze, apriva imposte, chiudeva porte su sconvenienti disordini e s’affrettava ad acconciare la residenza per la nuova giornata del Maestro.
Al primo tocco solare il giardino liberava un fumigare vago, un fatuo lascito all’aria di primavera, ancora senza fiori. Invero bocci riottosi spuntavano qua e là, ma, ben serrati, non parevano pronti a cedere i loro segreti. Ad inspirare con profondità quell’aura novella la Governante non sapeva rinunciare, un rito da cui distillava forze vitali, liberandosi al contempo delle paturnie d’animo più fastidiose.
Sopportare Monsieur Bonvis non era cosa leggera. Non perché fosse scorbutico, anzi. Un perfetto gentiluomo era. Professionale fin al midollo, sembrava esserci nato con quell’impeccabile livrea da maggiordomo.
Ma era pesante. Un’espressione rigida e compassata teneva in ostaggio il suo volto stuccoso, persino nelle ore del sonno, forse. Pur non avendolo mai sorpreso appisolato in tanti anni al servizio del Maestro, aveva la certezza che fosse così. Mai un cenno d’ilarità, un fiotto d’ira, una parola affrettata. Era la giusta misura fatta uomo, la giusta misura in ogni occasione. Inappuntabile in qualsivoglia sorte, tale era il suo personale credo ed egli ne era sostanziato fin nell’intimo più fondo. Giacchè l’essere umano altri non è che un acervo d’errori e riparazioni (talvolta agili, talaltra di percorso erto) quel suo anelito al perfetto chissà quale estenuazione implicava, dissimulata tuttavia.
Ammirevole dedizione al proprio ruolo, per nulla comune; ciò gli andava riconosciuto, ma la giornata al suo fianco scorreva opaca e greve, a dispetto di ogni tentata evasione.
Assolti dunque i primissimi e solitari impegni la Governante tornava d’uso nel giardino, a godersi qualche raggio di sole, quel giorno davvero benedetto dopo i tremendi freddi vernali che anche quell’anno, come i tanti precedenti, erano toccati.
Tra l’erba una testuggine stava immobile, il capo proteso al disco solare.
Lo stalliere passò accanto al rettile, lasciando fosse nel terreno molle ad ogni passo. S’avvide della Governante, ubertosa figura nella posa del corazzato antidiluviano – Buongiorno Madame Le Prete! – esordì nel cavarsi il cappellaccio.
- Buongiorno a voi. Tutto a posto? –
- Tutto a posto. I cavalli oziano e la carrozza arrugginisce. Com’è costume, ormai. –
- Il Maestro ci tiene ai suoi cavalli, anche se inutili –
L’uomo scosse la testa – Però a star fermi s’ammalano. Trottare almeno un poco dovrebbero. Sissignore. Trottare. – sottolineò ricalcandosi il cappellaccio.
La donna si chinò, prese la testuggine e la spostò dappresso, sul viale inghiaiato.
- La vecchia tartaruga se la passa male. Ogni giorno peggio – osservò.
- Ha mangiato? –
- Una foglia d’insalata e null’altro –
- Non dura. Nossignore. – riprese lo stalliere – Avanti così non dura. –
- Ormai è un povero relitto, non nascondiamocelo. –
- Ma perché starsene lì così, senza un moto! –
- Io penso aspetti. –
- Che cosa? –
- Non so, forse l’ultimo suo giorno. Sapete, ho l’impressione che qualcosa sia accaduto, in quella sua testa. Come un lampo di pensieri, d’un tratto, e subito svanito sì, ma lasciando un segno incancellato. Par proprio un’attesa, la sua. Cheta e rassegnata –
- Non ditelo! Noi anche si fa una brutta fine, in tal caso. Sissignore, questo è certo. – Lo stalliere annuì alle sue stesse parole – Tutti quanti, dal primo all’ultimo. Sissignore. Tutti. –
D’improvviso una voce si levò alle loro spalle - Vi ho udito! –
- Buongiorno, Monsieur Bonvis – salutò lo stalliere con nuova levata di cappellaccio.
La Governante si voltò - Ah, eccovi qua! Prendetevi un po’ di sole che vi farà bene! Par finto, un piatto di gesso in mezzo a una tovaglia scolorita, pare. Ma dopo un po’ scaldicchia. Venite a sentire!-
Il maggiordomo non si mosse – Vi ho udito, poco fa! Vi ho già chiesto di cessare quell’appellativo…animalesco! -
- Uhhhh! – sbuffò la donna. - Si comincia! E va bene! Ma adesso venite qua e scaldatevi, toglietevi quel po’ di gelo che vi portate appresso. Mi fate sembrar l’inverno più lungo e freddo di quel che è, altro che primavera! –
- Noi ci si preoccupa – riprese lo stalliere. – Si finisce tutti alla fame. Sissignore. Alla fame e da un giorno all’altro. –
- Non accadrà. – rassicurò inespressivo Monsieur Bonvis.
- Quanto mi piacerebbe esser voi! Avere le vostre certezze – incalzò la Governante – dev’essere un bel vivere! Badate, ho detto “mi piacerebbe essere voi” ma intendevo solo per un momento, un istante, giusto per provare, ben inteso. Non crediate ci sia in me il desiderio d’esser come voi! Vivo bene così come sono. –
- Al Maestro va dedicato ogni nostro possibile sforzo – continuò il maggiordomo.
- Certo! Lo si sta facendo tutti quanti! Ma non potete negare che proprio bene non sta, la vecchia tartaruga… –
Monsieur Bonvis si fece ancor più rigido – Vi ho appena detto….-
- Sì, va bene, va bene! Non lo chiamerò più così….anche se si somigliano….Insomma, guardatela lì mentre allunga la testolina al sole, tutta grinze e rinsecchita…Non sembra proprio lui? E ammettetelo! Son proprio uguali! Uguali, d’aspetto ma anche nel portarsi: lenti lenti e traballanti su quelle gambucce e silenziosi. Non è vero, Bonvis? –
- Il Maestro starà bene, vi dico. Dobbiamo solo attenerci a quanto raccomandato dal dottore, precisamente. –
- Intendetemi: anche a me, a noi tutti sta a cuore il Maestro e si vorrebbe godesse sempre di gran salute. Dove lo si trova un altro padrone così? Da quanti anni siamo al suo servizio? Trenta? Voi ben più, se non sbaglio. –
- Trentanove – puntualizzò il maggiordomo - e cinque mesi in fine del corrente. –
- Una vita, sissignore. Una vita. – s’intromise lo stalliere - Voglia Iddio che sia ancora lunga. Lunghissima. Con permesso… – Così dicendo s’allontanò, ripetendo quell’ultimo augurio come volesse tramutarlo in intimo suo convincimento.
- E non c’è stato un solo giorno in cui il Maestro non abbia composto. Soavi musiche, le più belle ch’io abbia udite. – proseguì Monsieur Bonvis.
La Governante abbassò le palpebre ed alzò il viso tondo a meglio cogliere le carezze solari – Su questo avete ragione. Ma son mesi che da quel suo clavicembalo nulla esce. Anche questo pare un monito. –
- Va fatto quel che dice il dottore, le cure lo rimetteranno –
- Speriamo. Ma restar in mezzo alla strada certo non posso. E giacchè di mariti all’orizzonte non se ne vedono, qualche voce già l’ho messa in giro. –
- Perdonate ma questo non posso approvarlo! Voi già lo seppellite! –
- Sono solo realistica. E previdente. Cosa che voi non siete…realistico intendo. Altrimenti non nutrireste tanta fiducia vedendo il Maestro sempre più malandato e prestando orecchio a ciò che dice il dottore ogni volta che vien qui. Capisco il vostro sentimento; non comprendo invece il vostro rifiutare anche solo l’ipotesi di un suo trapasso, peraltro inevitabile e verosimilmente precedente il nostro. Il vostro pensiero s’oppone alle leggi di natura, non ne otterrete alcun bene. Mi dispiace ma così la vedo io. Non dico questo per addolorarvi, in fondo a voi ci tengo…. – La Governante ammutolì un istante - Pensate un po’ cosa mi vien da dire! – sbottò poi - Eppure l’ho detto, ecco, a voi ci tengo. Ma non intendete una cosa per l’altra. Ho solo detto che ci tengo…ad avervi come collega…sì, ed a sapervi in buon stato d’animo, soprattutto. –
Monsieur Bonvis fissò i vapori accesi dal sole a sfioro sul prato.
- Sì, capisco. Ora, vogliate scusare la franchezza, ma ritengo vada senz’altro chiusa questa parentesi. –
- No, non capite. Nondimeno avete ragione: è meglio che si torni al lavoro -
I due tornarono alle rispettive occupazioni e la testuggine, sollevato con fatica il carapace, mosse lemme lemme verso l’erba umida, forse sollecitata da gustose attrattive colà nascoste.

 

II

Non già spostare il clavicembalo dalla sala da musica alla camera da letto ma viceversa. Ovverossia tradurre baldacchino, poltrone, sofà, specchiere e ogni altro mobilio e suppellettile là dove stava il clavicembalo. La richiesta avanzata dal Maestro, sulle prime ritenuta dalla Governante assai strampalata e forse figlia dell’incipiente cedimento della mente del vecchio, sottostava ad una speciale logica.
- Permetterà al Maestro di ridurre i passi per spostarsi dal letto al clavicembalo, i due pezzi di mobilio presso cui passa la maggior parte del suo tempo, sia in sonno che in veglia – spiegò Bonvis, erettosi a difesa della stramberia – E considerato che il soffitto della camera da letto nuoce al suono laddove la camera da musica ha volte di special forma, tutto torna. -
- A questo, davvero… – riconobbe Madame Le Prete – davvero non avrei pensato. Siete di cervella fini, l’ho sempre detto, caro Bonvis. –
- Smettete le vostre inutili adulazioni…. -
- Uhu! Adulazioni….inutili….. – la donna accennò un risolino – Vi portano disagio? –
- Come tutte le adulazioni –
- Sicchè non son propriamente….inutili – replicò divertita
- Insomma. Lasciatemi lavorare senza rodimenti…. –
- E’ quel che faccio. –
- Volete cortesemente andar a prendere i candelabri? –
- Già son qua, li avete dietro di voi. –
Monsieur Bonvis si voltò – Ah! M’avete prevenuto. –
- Come sempre –
- Dunque… – Bonvis passò in rassegna il nuovo allestimento della sala da musica – Par tutto come comandato. Manca qualcosa? –
- Sembra perfetto – approvò Madame Le Prete – Inusuale ma perfetto. Il Maestro sarà contento senz’altro. –
Il maggiordomo squadrò pensoso l’allestimento – Non va –
- Cos’è che non va? –
- La carta da musica, penna e calamaio. Dobbiamo avvicinare il tavolinetto al cembalo, così avrà tutto proprio sottomano, senza neppure alzarsi –
- Del tutto inutile, ma facciamo pure. Il Maestro non compone un solo rigo da mesi e mesi. –
- A noi spetta garantirgli il maggior agio. E ciò basta come motivazione. –
Terminata quell’ultima traslazione Bonvis annunciò al Maestro d’aver finalmente concluso. Questi stimò compiaciuto l’allestimento – Davvero un’ottima soluzione! Grazie infinite, Bonvis. -
- Maestro, vi rammento l’impegno odierno –
Il vecchio vagò lo sguardo come a leggere invisibili cartigli d’appunti appesi all’aria – Mmmmmh –
- Quel musicista….. – suggerì il maggiordomo.
- Oh! Ma certo! –
- Sarà qui a momenti. Lo faccio passare? –
- Sicuro – fece il vecchio, convintamente – Quando volete, son pronto. Anzi, no. La parrucca, sapete, quella lunga. –
- Certamente Maestro. Ottima scelta. –
Bonvis procurò l’orpello richiesto e lo sistemò sul cranio glabro del vecchio.
- Uh! –
- Qualcosa non va Maestro? –
- Che peso! La ricordavo ben più lieve….invero l’avverto quale una gualdrappa da equino! –
Il maggiordomo rimosse il pondo e lo sostituì con una parrucca di foggia più contenuta.
- Posso suggerire quest’altra? –
- Ah, sì. Così va meglio. – Il Maestro si specchiò - Certo che l’altra fa tutt’altra scena, ma pazienza. –
- Giusta considerazione, Maestro. V’è un tempo per ogni parrucca, se posso permettermi. –
- Così pare, caro Bonvis. -
- Grazie Maestro. – Bonvis riprese la parrucca – Tuttavia necessita d’una sistemata – osservò studiandola con occhio attento – Va pettinata e impomatata e incipriata per bene, sarà più lucente –
- Giusto, Bonvis! Ad un oggetto tanto raffinato non va usata grettezza! Ci vuol ogni attenzione per averne restituito il miglior risultato. –
Il maggiordomo prese a pettinare la parrucca con cura e gentilezza, quasi quei capelli fossero ancora vivi e sul capo d’una donna.
- Come s’ha da fare con uno strumento – proseguì il vecchio - Guardate questo clavicembalo, Bonvis, guardate i tasti allineati in duplice manuale. Quanta perizia ha avuto il costruttore nel mettere ordine in una materia scomposta. Centinaia e centinaia di componenti: tasti, caviglie, salterelli, ponticelli, molle, plettri, corde. A sua volta ciascuno con artifici ottenuto da altre complessità naturali: ebano, abete rosso, pero, ferro, osso, setole di cinghiale, penne di corvo imperiale…Una teoria d’infiniti tentativi, ed errori, e rifacimenti; un lungo fallire punteggiato da qualche successo. Tutto per una nota, un suono. Un suono che solo altrettanta perizia potrà organizzare in musica. Perizia formata su interminabili esercizi e studi e fatiche e cedimenti e volontà infinita. E ancora non basta, ci vuol poi questo – Il Maestro portò la mano al petto – Questo muscolo, Bonvis, questo che batte un tempo lui stesso e nasce il ritmo. E il ritmo è vita, vita in ogni forma. Lo sentite, Bonvis? Lo sentite il vostro cuore che vi segna il ritmo? –
- Non saprei, Maestro. Non vi ho mai prestato attenzione. -
- Ascoltatelo, allora. Ecco perché il genere umano ama il ritmo, perchè l’ha dentro di sé. Ascoltatelo, Bonvis. E sentirete che dal ritmo nasce la danza. Una danza tra cuore e mente. Ed eccola la musica! Non è un’architettura mirabile? Forse in virtù di questa infinita complessità e di questo infinito ordinamento il risultato finale è così superiore? Sovrumano? –
Bonvis pettinava, assorto nell’ufficio - Nessuno conosce la musica come voi, Maestro, e nessuno l’ama quanto voi –
- Come milioni d’uccelli stretti nel medesimo volo – continuò il Maestro - l’infinita complessità d’ogni loro piuma si compone nella infinita complessità d’ogni ala per sostenerne il peso in un
semplice battito. E ogni battito seguita gli altri su milioni di traiettorie, tutte così vicine tra loro eppure ognuna a sé stante e di moto indipendente. Da tutto ciò risulta però un’unica forma, una forma che all’unisono s’impenna, schiva, s’allarga. Come possiamo comprendere il denominatore che sta sotto a tutto ciò? E la musica ha ugual natura. C’è in essa un linguaggio, una forma risultato d’infinite complessità concorrenti. Capiamo quel linguaggio, vediamo ben quella forma, ma il significato? Dov’è? Non lo sapremo, non è in nostro potere capirlo, né lo sarà. –
- Certo, Maestro. Una stranezza. Una stranezza nello strano mondo umano –
- La musica nasce forse dagli astri, Bonvis? Dai loro moti regolati da segrete armonie? Forse essa è eterna, riposta nella vastità del cosmo e s’affaccia talora all’imperfezione del mondo umano, in attesa. Sì, come un gatto in paziente attesa d’aver finalmente consentito l’ingresso, allora essa entra in noi per corsa opposta a quella dello sguardo volto al padiglione stellato. In virtù dell’infinita complessità si fa infine suono e torna all’origine. Che cosa ci resta? Quasi nulla. Nulla che sia materia. Una sensazione, una sensazione effimera: colta, assaporata e già persa. Come la brevità del ricordo, ecco…..come il ricordo schiude in noi pianto e gioia. -
Bonvis rimise la parrucca sul capo del vecchio, questi sembrò non accorgersene.
- Sì, sovrumana. Sovrumana è la musica. Io non so a chi sia destinato questo prodotto infinitamente complesso e figlio di infinite complessità. Non trova fine con la soddisfazione della committenza, oh no! Certo no. Qual’è il suo approdo ultimo? A chi giunge in verità l’opera? Io non ne sono che l’estremo prestatore; giunte all’acme d’una pira immensa le note se ne distaccano e prendono una via ignota. A noi resta un soldo, un soldo cavato dalla borsa del cliente. Oppure un plauso. E forse un nome impresso da qualche stampatore sulla partitura. Ma questo è solo infingimento. Infingimento inventato dagli uomini per acquietare il mondo degli uomini. Un infingimento che non ha motivo di durare più del necessario. –
- Ecco, Maestro. Che ve ne pare? –
Le parole di Bonvis non trovarono risposta.
- Eppure tutto fluirà via. - Il vecchio posò una mano sul clavicembalo - Prima che lo faccia il tempo saranno gli uomini stessi a rodere questo capolavoro: soccomberà di fronte alla novità di qualche strumento nuovo e un giorno prossimo ne faranno legna da ardere, se non saranno prima i calcinacci d’un soffitto a tombarlo e con lui la meravigliosa complessità del suo corpo. –
- Come vi sembra, Maestro? – ripetè Bonvis.
Il vecchio fu strappato al suo soliloquio – Come? –
- La parrucca, Maestro. –
- Ah! La parrucca….la parrucca…Sì. Dunque…. – L’uomo studiò a lungo l’immagine nello specchio: il volto grigio sembrava ingoiare i boccoli argentei che tuttavia raggiavano inestinta luce.
- Oh! Mi sta una meraviglia! Per quel che può valere sulla mia faccia, s’intende. Bonvis, voi davvero sapete trattare ogni materia! Ed ogni umano spirito, lasciate che ve lo riconosca! -
- Grazie Maestro. Se non avete altre necessità……Con permesso –
- Son io che ringrazio voi, Bonvis. Grazie, siete inestimabile. Inestimabile. Lo siete sempre stato… –

 

III

A mezza mattina il sole, in affanno sin dall’alba, si velò di nubi tese e grigie. L’aria giacque incapace sul mondo silente, immota, sonnolenta e fredda.
La sala da musica raggelò, Bonvis accorse ad aggiungere ciocchi nel camino, uscì e si ripresentò poco dopo annunciando l’atteso visitatore – Maestro, il signor musicista Leclare. –
Il vecchio, chino al clavicembalo, accennò un assenso senza volgersi.
Il giovane entrò nella stanza con una certa reverenza, stringendo un rotolo di partiture. Si profuse in esordi di circostanza e convenevoli che non suscitarono la minima reazione nel Maestro, apparentemente poco interessato alla novità comparsa in casa sua sotto quella forma umana.
Leclare rimase in piedi - Il mio nome è Leclare…- il visitatore lasciò la frase sospesa in confidente attesa della reazione del vegliardo, che evidentemente prevedeva rilevante.
Questi, invece, raccolto allo strumento col capo reclino di lato e l’orecchio teso a cogliere misteriose sonorità, non mosse altro che i pochi muscoli della mano destra necessari ad ottenere un'unica nota, ossessivamente ribattuta.
- Voi sembrate non conoscere il mio nome… - riprese nascondendo la delusione sotto un pastrano di stupore.
Il Maestro parve non averlo udito, spostò il medio su un altro tasto e riprese senz’altro moto l’ascolto.
Infine, tenendo lo sguardo fisso a misteriose distanze e senza interrompere il rituale percussivo, accennò uno sbieco tender di labbra e sibilò: - E’ grave? –
- Prego? – esclamò sorpreso Leclare.
- Dico: è grave? E’ grave che io non abbia mai sentito parlar di Voi? –
- No, certamente. Avete ben altre occupazioni che prestare orecchio a quanto circola nei salotti da concerto…. –
- Per niente! – Sbottò il Maestro, interrotto l’officio con una smorfia – Non ho proprio niente da fare. Nulla tutto il giorno e ancor meno la notte, che è ben più lunga – e riprese a solleticare l’unico tasto che sembrava riscuotere il suo interesse.
- Ah! – Leclare inghiottì disagio e fastidio.
- Già che vi trovate in casa mia, ditemi, potete intervenire presso Tembelia? -
- Chi? Perdonate…non comprendo –
- Tembelia. Tembelia…la noia –
Il giovane Leclare ebbe un istante d’esitazione, poi si scosse ma non ebbe il tempo di proferir verbo. Il Maestro levò l’orecchio dal clavicembalo e, volgendosi, guardò all’ospite per la prima volta dal suo ingredire: - Oh, che novità! – esclamò.
Leclare drizzò le spalle, compiaciuto d’aver finalmente destato qualche interesse nel vecchio.
Questi s’alzò con fatica e continuò: - Davvero! – squadrandolo ulteriormente.
- Dunque mi riconoscete? –
- No, ma vi assicuro voi siete una bella novità…-
- Grazie, ma…ecco….Maestro…io -
- Una bella novità! Sì, perché un abito come il vostro mai l’ho visto! –
Leclare si guardò le maniche della marsina, indagò il panciotto, torse lo sguardo sulle spalle ma non individuò nulla di stravagante che potesse essersi insinuato nella sua scrupolosa vestizione. - Che cosa volete dire, Maestro? –
- E che bottoni! Straordinari! - il vecchio si chinò per un'approfondita osservazione degli orpelli al panciotto, ne toccò uno - Davvero interessanti! Perdonate la curiosità, Monsieur, di qual materia son composti? -
Leclare restava immobile come in posa comandata da un sarto, perfezionista e perciò severo.
- Porcellana, son di porcellana cinese....molto....molto costosi, sapete -
- Uh! L'oriente! Che finezza! Una vera disdetta che sia così lontano, non trovate? - nel parlare il Maestro si trastullava con il bottone, sfregandone la superficie lucida, ora torcendolo per meglio discernere i dettagli dell'ornata ora tiracchiandolo per scrutarne la faccia affondata nella seta del panciotto. Leclare subiva l'esame senza il minimo moto, ma un languore gli iniziava a frullare nello stomaco, emergendo in forma di nervosi stiracchi labiali.
- E dunque questi....questi bottoni, oltremodo esclusivi- va ben detto - han traversato mezzo mondo per approdare in casa mia? Non lo trovate interessante? Intendo, tutto il gran daffare che saran costati al fabbricante, al decoratore (uh! Che dita sottili! Che levità di tocco! Forse una donna?) e poi il viaggio lunghissimo (tanti, tanti i rischi per oggetti così piccoli e delicati). E non è finita qui la
lista! L'avrete ben scelti uno per uno giacchè vedo son tutti di diverso aspetto, e ne avrete comandato l'ordine di cucitura sul panciotto, ordine non casuale, nevvero? E la lucidatura? Che impresa!.. e...Uh! - Il Maestro s'irrigidì all'improvviso - Per Giove! - Il bottone, sfinito da tanto titillare, s'era infine abbandonato alle dita indagatrici del Maestro, che ora lo stringeva con un certo sbigottimento. In sua vece dal panciotto pendeva un esangue cespo di filamenti setosi.
Leclare superò il momento d'orrore con erculeo sforzo. Ad occhi fessurati respirò a fondo, il Maestro si rigirava intanto tra le dita il bottone testè estirpato - Mille scuse, Monsieur, che sbadato! Che vecchio rimbambito sono! Ma c'è rimedio, c'è rimedio! Uscendo fatevi dare dai domestici l'indirizzo del mio sarto, pagherò io la riparazione... –
- Lasciate andare, Maestro, non c’è caso, davvero! Che volete che sia un bottone? –
- Ah no! Devo pur riparare al danno! – così dicendo infilò l’estirpato nel taschino dell’orbo panciotto.
- Ma ditemi, Monsieur Le Clap, questi vestiti così interessanti s’accompagnano a qualcosa di pari novità? – proseguì il vecchio circumnavigando il giovane, nel quale il disagio andava guadagnando campo.
- In verità sì, Maestro –
- Ah! Benissimo! E posso chiedervi di che si tratti? –
- Di una mia composizione. L’ho chiamata “Variazioni di bravura” –
Il Maestro interruppe la navigazione e buttò l’ancora davanti a Leclare - Variazioni? –
- Di bravura – aggiunse Leclare
- Ma, perdonate, cos’è che varia? La bravura? –
- Bravura? No…ma certamente no. L’aria iniziale è ciò sui cui ho composto le variazioni -
- L’ho compreso che l’avete composte voi. Dunque è l’aria che varia? –
- Certamente – chiarì il giovane, sempre più incerto sulla realtà della situazione e sulla sanità mentale del Maestro.
- L’aria che varia. L’ariachevaria. L’ariache varia – cantilenò il Maestro girando lo sguardo nella stanza – Lari a cheva ri a. Variavarialaria…Alaaariavaaaria.. –
Leclare ora s’era convinto a cavarsi fuori dallo strampalato colloquio – E’ in si bemolle maggiore –
- Vi prego, basta dettagli! – l’interruppe il Maestro.
Finalmente anche il vecchio s’era deciso a passare al sodo, considerò soddisfatto il visitatore.
- Mi permettete di suonarla? – chiese
- Certo! – asserì il Maestro con entusiasmo. – Il mio clavicembalo è al vostro servizio! Prego Monsieur La Clac! Avanti con quest’aria che varia! E’ ora che qualcuno renda nuova voce al mio Dumont! –
Leclare si sedette allo strumento, squadernò il rotolo di spartiti e li sistemò per bene sul leggio. Si produsse in una complicata serie di torsioni della schiena e delle spalle, sciolse le dita e chinò la testa in cerca della necessaria concentrazione.
Attaccò con furore, lanciandosi in arditezze cromatiche e funambolici arpeggi con la veemenza e la rapidità che gli avevan guadagnato l’appellativo di “Leclare l’eclaire”.
Ecco il prodigio Leclare! Eccolo alla tastiera, al cospetto del Grande. Del Reale Musicista Ordinario, nientemeno! E via con tutto l’impegno possibile, senza tema d’errare, niente spartito! Era quello il momento, l’acme ambìto, il prodotto di estenuanti esercizi e infinite ripetizioni! Ora, ora doveva lasciarla a bocca aperta, quella onusta crisalide!
Infine l’ultima nota risonò e fu silenzio assoluto. Leclare ansimava ad occhi chiusi nel cedere tutta la tensione dal corpo, madido sotto i paludamenti.
Aprì le palpebre.
Del Maestro non v’era traccia. Se l’era figurato alle spalle, irretito dalla scionata di semibiscrome e biscrome.
Invece non c’era.
Non era neppure al suo fianco e nemmanco tra lui e la porta.
Non era nella stanza.
Uscito! Il Maestro se n’era andato! Forse fin da subito. S’alzò, prese le partiture e s’avviò verso la porta, dalla quale il Maestro rientrava.
- Maestro! Ah! Ma voi…Voi non avete ascoltato! –
- E come avrei potuto? Non c’ero! –
- Voi…voi mi avete corbellato! –
- Io? Non avete forse suonato la vostra musica sul mio Dumont? –
- E’ ciò che ho fatto! Precisamente! Mi aspettavo che l’avreste ascoltata! –
- Perdonate, Monsieur Le Clappe, ma voi mi avete chiesto di poter suonare al clavicembalo mio e lo avete ben fatto, mi state dicendo. Non mi avete chiesto di ascoltarvi! Che vi costava esser più chiaro nel comunicare i vostri intendimenti? –
- Più chiaro? Ma…No. Basta! Ne ho abbastanza. Grazie della vostra….disattenzione…e scortesia! – Leclare girò sui tacchi e si strappò la parrucca boccolosa dal cranio – Leclare! Leclare mi chiamo! – gridò, poi scaraventò a terra la parrucca ed uscì.
Il Maestro riguadagnò il Dumont e riattaccò tosto il rito percussivo, profanato dalla sortita del giovane Leclare e perciò da ripetersi fin dal primitivo esordio – Tutto da rifare! Accidenti a voi, monsieur LeCrèere!– sospirò stancamente.

 

III

Guadagnar l’estrema stanza della casa costava al Maestro non minor fatica che ad una cicogna traversar mezz’Europa. Laggiù convenientemente relegata, la cucina non era di norma meta degli stentati vagabondaggi casalinghi del vecchio, vani tentativi di sottrarsi alla compagnia del tedio.
Sul finir del mattino, tuttavia, un’impreveduta parentesi di grazia concessagli dal malanno e dal corpo frusto, l’indusse ad affrontare il pellegrinaggio, quasi coll’animo d’un esploratore teso a nuove terre.
Vagheggiava, nell’affrontare gl’infiniti corridoi, di possibili spunti ritmici, magari tratto tratto suggeriti da ribollimenti e tremori del pentolame, o dall’ancestrale allegria donata dai fochi.
Sì, il caso poteva darsi. N’avrebbe ideato dapprima un nocciolo di note: il germe vitale (qui urgeva genio), subito nutrito a farne un vivace rondeau (questo era puro mestiere e null’altro) e poi abbigliato, lustrato, cresciuto e infine specchiato un paio di volte (completamento di facile riuscita).
Infine eccolo, il trionfale confezionamento per gioia d’orecchi e di pensiero.
Ma tutto s’appigliava al ritmo, quel ritmo che rintanato oziava, stufo evidentemente di prestarsi all’arte sua, all’arte di colui che l’aveva portato a vette estreme.
A meno di quell’ingrediente non c’era modo di fare, restavano solo note sparute, orfane, sterili.
La porta della cucina era socchiusa: un invito irresistibile che colse, pronto.
Da pignatte e casseruole s’alzava una fragranza invitante, il Maestro chiuse gli occhi ed aspirò emettendo un mugolìo sommesso: - Che meraviglia! Cosa c’è lì dentro che sfrigola? Mi par un trillo di violino…-
- Buongiorno, Signor Maestro. E’ arrosto. Di porcello. – spiegò la cuoca, china su un largo tagliere dov’eran radunati plotoni di verdure in listerelle e cubetti –
- Ahhhh! Finalmente… - Il Maestro sfregò le mani, acceso di gioia bambinesca.
La donna drizzò verso un pentolone il coltellaccio che stringeva – Il vostro pranzo è quello là -
- E che c’è là dentro? –
- Zuppa. Di carote. Lo sapete che potete mangiar solo quella. –
- M’intristisce. La zuppa di carote mi nuoce, ne ho convinzione. –
- Il medico dice tutt’altro. “Verdure di stagione a colazione e zuppa di carote pranzo e cena”, questo dice. –
- Siate buona….lasciatemi assaggiare l’arrosto…per una volta…-
La cuoca scosse la testa – Nossignore, perdonate, vi accontenterei con tutto il cuore ma m’è fatto divieto. –
Il Maestro si lasciò cadere sulla sedia più vicina, disfatto – Sempre lei? –
- Certo. Madame Le Prete ci tiene alla sua salute, Signor Maestro. E anche Monsieur Bonvis, anzi lui ancor più. –
- Avrei infinito piacere di mangiar qualcosa di succulento….Ne trarrei sicuro benefizio…-
- Sapete bene che non potete. Il dottore dice che vi guasterebbe da qualche parte, non so bene dove…-
- Ma che cosa c’è da guastare più di quel che già guasto è? Suvvia! Una sola fettina. Una sola. E sottile a vostra posta, sia pure. Quanti pasti avete cucinato per me? –
- Quanti me ne avete chiesti, Signor Maestro –
- Millanta e millanta e millanta prelibatezze! – riepilogò luminoso il vegliardo – E in nome di tal nostra lunga comunanza non si potrebbe astenersi dalla regola claustrale che quel saccente di medico spiumapolli c’impone? –
Ma la cuoca tenne duro senza distrarsi dai fuochi - Han detto che vi farebbe danno, Signor Maestro. E la nostra…comunanza potrebbe finir d’un botto. –
- Vi par giusto? – sospirò il Maestro - Rinunciare a quel poco che m’è rimasto? La vecchiaia è o no solo una perdita? Ho perso le forze, i sogni, gli amici…E guardate le mie mani – il Maestro si portò la destra all’altezza degli occhi - Che cosa sembrano? Artigli! Per giunta deboli! Qualcosa che neppure dovrebbe esistere, una contraddizione, una cosa del tutto inutile. Tutta la musica passa per queste, vedete? Per le mani. Solo le mani permettono di fare musica, senza la loro infinita complessità non ci sarebbe musica, solo note stampate sul rigo, note mute. Resterebbe il canto, cioè un corpo mozzo. Ma queste mani son come perse, pinne inutili e che non danno più musica. –
La cuoca scosse la testa mentre saettava col coltellaccio sulle verzure – Signor Maestro, lo sapete, io non ne capisco di musica. So solo che mi piace, la vostra musica. Io m’intendo di quel che sta qua, dentro alla cucina: piatti, pentole, pietanze e cibo…-
- Ah no! Vi sbagliate! Ogni piatto che cucinate è musica! Un prodotto di gran maestria! Ecco, al solo pensarci mi vien l’acquolina, mi s’apre lo stomaco…ah che meraviglia! Rinasco! – esclamò raggiante - Certi manicaretti! I sughi! Ed il vino! Che sposo solerte per le pietanze! Se solo potessi assaggiarne ancora un lembo! E bere un calice di borgogna…Quasi varrebbe un subitaneo trapasso, non vi pare? -
La cuoca affettava – Siate buono, non continuate che mi vien la colpa. –
- La colpa! Ah! – ogni luce si spense dal viso del vecchio - Il problema della vita è in fondo uno solo. –
La cuoca innalzò le sopracciglia senza distrarsi – Davvero? –
- La consapevolezza. T’alzi in una mattina in tutto uguale alle precedenti: stessi luce e rumori, medesimi gesti. Eppure qualcosa di diverso t’affiora alla mente. Un’incompletezza, avverti un pispiglio ma senza capire e ravvisi che qualcosa s’è insinuato a turbar il tuo agio quotidiano. Una codina che par di topo, sì, e che sporge dal buco nel muro. Allora l’indaghi, sbirci nell’ombra del minuscolo antro e t’avvedi che in luogo del topolino la coda s’attacca al groppo d’un corpo informe, ma mostruoso e inquietante. E lo fuggi, ma ora sai che quell’innocua cauda è invece irta di ventose, ventose che in quello stesso istante t’han marcato col loro stampo indelebile. Un liquore amaro t’è sceso nelle budella e nulla vale ad espellerlo né digerirlo. Così propriamente più non vivi, pur vivissimo parendo agli occhi altrui. –
- Perdonate se dico la mia, Signor Maestro – osò la donna mentre sminuzzava – Ma a me pare che di problema ce ne stia almeno un altro, nella vita. Con o senza questa…questa… consapevolezza che dite e questo topone nel buco del muro, mezzo ratto e mezzo polpo come m’ha detto, Signor Maestro. –
- M’interessa, andate avanti –
- Ecco, io penso che prima venga la pancia. Dico la pancia piena, quello è il primo problema nella vita di tutti. Persino del topone o polpo o che altro sia. Tutto il resto vien dopo. Ce ne sono di persone che questo problema se lo trovan risolto da che stanno in fasce, eccome. Ma tutti gli altri la pancia che borbotta la sentono. E poi nella tana del topo ci sbircia chi non sa che altrimenti fare….E’ un po’ come volerla trovare, questa consapevolezza! Scusate ma io ragiono da donna di cucina….il mio mondo è ben piccino, sta tutto qui…tra marmitte e mestoli. Il resto è illusione. –
- Illusione? –
- Sì, io m’illudo di paesi strani e lontani. Di cose diverse da queste qui. M’illudo di isole verdi verdi come cavoli in mezzo a mari smaltati a turchese come….come il samovar….quello che v’ha donato il tedesco….come lo chiamate? –
- Il Margravio di Brandeburgo? –
- Sì, proprio lui. Ecco, di mari così turchesi m’illudo. M’illudo di stranieri in abiti mozzafiato e di grandi anime nel vasto mondo. M’illudo e così rendo a questa mia vita, che altro non è che una briciola di pan secco, la dolcezza d’un pasticcino candito. -
Il Maestro restò pensoso, fisso al tagliere.
- Ho parlato troppo, Signor Maestro? Scusate…son qui presa tra il mio pentolame e dovrei pensar solo a quello…. –
- Ah no! Per niente. L’avete detta giusta, brava donna, proprio giusta... E, sapete, in fondo non siamo così diversi, noi due.
- Via, non vi baloccate con me…. –
- Non ne ho l’intenzione. Son serio: avete ragione –
La cuoca afferrò uno spiedo forcuto – Perdonate, ho da punzecchiar l’arrosto – dalla casseruola scoperchiata sbuffò una nube densa che il vecchio, proteso come a scandagliare un precipizio, aspirò avidamente.
- E’ pronto. Cotto giusto – disse l’altra voltando e rivoltando con lo spiedo.
- E ora? – s’informò impaziente il Maestro.
- Lo si lascia al caldo, ben chiuso fino alla chiamata di Monsieur Bonvis…-
- Ma….e la nostra comunanza? Non si potrebbe riconsiderare…-
- Ah no! Non potete! Non posso! Con permesso, Signor Maestro, devo andar in dispensa –
La donna volteggiò tra fuochi e tagliere e uscì.
Rimasto in compagnia delle sole fragranze l’uomo si guardò attorno. D’un tratto scorse lo spiedo, posato accanto al gibbo di minutaglie. Infilzato sulla forca un lembo d’arrosto riluceva di sugosi veli.
Santa donna! Pensò. Che sia benedetta e possa godere di lunga vita, lunghissima e lieta! E senza perdere quell’attimo benigno ingollò l’astuccio di delizie, lasciando che ogni aroma diffondesse tra lingua e palato, cullandolo ad occhi chiusi, con infinita dolcezza frazionando minuscole gemme, ricomposte infine nella sovrana armonia d’un piacere redivivo.

 

IV

L’apparente tregua concessa dalla malattia si rivelò un turpe inganno nel pomeriggio. Con l’aiuto di Bonvis il vecchio si trascinò fino al baldacchino dove giacque sfinito dal travaglio ed infine s’appisolò.
Fu risvegliato da un sussurrio a due voci. Sulla porta Bonvis confabulava con una presenza invisibile, celata dietro lo stipite ma dalla voce ben nota al vecchio.
Terminato il conciabolo la figura si mostrò.
- Quale disturbo vi affligge stamane, Maestro? – chiese il medico varcata la soglia della stanza da musica, punto stupito dagli effetti del recente trasloco.
- Anzitutto voi. –
- Fingerò di non avervi udito. Come vi sentite? –
- Male –
- Il ventre? –
- Il ventre, certo. Conservate buona memoria, dunque. Io, invece, a malapena rammento il vostro nome. D’avervi convocato, invece, proprio non lo ricordo. –
- E’ la vostra governante che m’ha chiesto di visitarvi, immagino su vostra disposizione, Maestro. –
- Non me ne ricordo. –
- E non è buon segno! –
- Vi sto dicendo che non v’ho convocato! A che mi servite? Se non vi riesce di curare Sua Maestà Luigi come posso avere la speranza di guadagnar salute dalle vostre cure? –
- Sicchè nessun giovamento dalla dieta che v’ho raccomandato? –
Il vecchio strabuzzò gli occhi – La dieta di carote? No, non ha funzionato, difatti ancora son vivo. Perché è chiaro che intendete togliermi di mezzo se pensate di nutrirmi come un coniglio… -
Il medico, immune all’acredine del vecchio, ne squadrò il corpo disteso sul letto. I cuscini parevano ansiosi d’inghiottirlo.
- E i piedi? Come stanno? –
- Non saprei, non mi danno risposta da giorni, se ben ricordo. Temo d’averli offesi inavvertitamente –
- Via, smettetela. Qui si vuol solo il vostro bene ed io faccio tutto quel che posso. –
- Appunto. Lasciatemi in pace ma prima prescrivetemi una cura d’arrosti, gigotti e borgogna. Abbondanti, se possibile. Anzi, non fatevi scrupolo, siate severo e aggiungete due o tre pasticcini. Capezzoli di Venere, in particolare. Fanno rinascere. –
Il vecchio ebbe un improvviso sussulto, fece una smorfia, mugolò e si portò le mani al ventre.
- Che avete? Dolore? Dove precisamente? – Il medico si chinò e scoprì l’epa dolorante.
- Non mi concede tregua. Sempre lo stesso dolore e sempre nel medesimo punto. Se poteste togliermi questo dolore. Almeno mutarlo di qualità…–
- Prego? Cosa intendete? –
- Se di tanto in tanto cambiasse la sua natura, se potessi avere il privilegio di provare un dolore differente per qualche tempo. Sarebbe una gran novità, vi assicuro. Persino se cambiasse sede pur restando della medesima qualità sarebbe accettabile, magari…..che so…..dall’altro lato, o dietro il collo…..o alle terga…..-
Il medico lo guardò interrogativamente – Quale senso avrebbe un simile risultato? Lo riterrei persino contrario alla buona pratica medica….-
Il Maestro sbuffò rigirandosi sul letto, il baldacchino emise un lamento aspro. – Mi tediate….Buona pratica medica?....Buona pratica sarebbe curare…..curare l’interesse del malato… e nel caso specifico consentirmi di trovare sollievo da questo dolore. Questa sarebbe vera novità, oltre che buona pratica medica, s’intende! –
- Sciocchezze! Lasciate che sia io a trattare con la malattia. Bisogna indurla a un compromesso, non spingerla alla ribellione irritandola. – e così dicendo il medico si chinò ad auscultare il ventre malato, palpandolo al contempo. Il Maestro sussultò come avesse visto un aspide affacciarsi dal baldacchino. Un acuto lamento attraversò la stanza.
- Duole? – chiese il medico continuando l’auscultazione.
- Certo! Ve l’ho detto innanzi che duole! –
- Cercate di far silenzio. I vostri lamenti mi impediscono l’auscultazione –
- Io non mi lamento! E’ il baldacchino che cigola! Insomma….Considerato che non riuscite a lenire le mie sofferenze potreste almeno cercare di non acuirle? Andatevene! Conoscete la strada. E cercate di dimenticarvela una volta tornato a casa vostra! –
- Monsieur voi non mi aiutate! –
- Aiutarvi? Sta bene, volete sapere cosa sento qua dentro? – il vecchio si battè il petto – Ve lo dirò senza troppi ceselli! Il mio corpo è una cattedrale d’ossa in rovina! E dentro gli organi non cantano in coro! No, ognuno strepita con l’unico scopo di farsi sentire più dell’altro! Qua dentro manca l’armonia! Ecco cosa manca….Siete forse voi quel direttore che può riportare armonia in questo coro di gracule? Allora fatelo! –
Il medico scandagliò gli occhi a fessura del Maestro - Siete…siete come il vostro ventre…Intrattabile…Tornerò domani, spero di trovarvi di miglior umore. - e così dicendo si rialzò, ripose i suoi strumenti nella borsa e prese commiato.

 

V

L’ultima ora del giorno se n’era andata, tra pigri corpuscoli nevosi, dipoi raffittiti e decisi.
Il Maestro studiò a lungo il Dumont, come a fronteggiare una fiera sorniona.
Infine raggiunse il clavicembalo, esitò poi le dita iniziarono a scorrere sui manuali. Ma erano strade vecchie quelle che percorrevano le sue mani, vecchie note allineate in vecchi schemi. Nient’altro che uno specilegio, pur di splendida cernita ma già digerito dal tempo. Nulla di nuovo usciva dalle mirabili meccaniche, costrette all’aridità dal disseccarsi di quel lago da cui aveva pescato tante invenzioni, finissimi ceselli, delicate miniature. Un doloroso suonare era quello, l’unico piacere rimastogli non poteva esser separato da un risvolto d’angoscia.
Il suo era tempo ormai strozzato.
E un giorno, ricordava, in uno di quei giorni strozzati un tremito gli s’era intrufolato nella mente tra una nota e l’altra.
Un’immagine sfocata e graffiata dall’erosione, fors’anche abilmente ritoccata qua e là dall’incertezza del ricordo. Da una frangia di memoria era gocciata una sferula trasparente. La superficie d’un remotissimo golfo fu turbata e da laggiù s’allargò silente, fino all’approdo della coscienza.
Fu stupefazione. Lo colse all’improvviso, come se in corsa tra giunchi gli fosse apparsa una variopinta farfalla. In quel momento ogni altro pensiero perse urgenza, sospinto via dall’esile corrente di quel batter d’ali.
Che cos’era?
Un volto.
Al tocco lieve di quella risacca un volto appariva, spariva e tornava, con sempre maggior dettaglio.
Da quel suo primo manifestarsi, con infinita dolcezza quell’imprevisto s’affacciava allo scandire d’un arcano periodare, talvolta nel grembo della notte, talaltra nel vuoto dei meriggi.
Sì, ora stringeva quel ricordo. Lo stringeva, immateriale eppure definito, lontanissimo eppure chiaro. Una mancanza in tutto presente.
Che cosa l’aveva estratto da quel romitorio avvolto in nebbie antiche, circoscritto da infinite distanze e isolato per tanto tempo? Quale significato racchiudeva una tale manifestazione? E perché ora? Perché tornava in quel suo disabitato regno di vecchiezza? Ora che nessun motivo era lecito ricercare, perché da troppo spessa coltre quel volto era stato sepolto?
Ma eccola ancora tornare, quella mancanza. Quell’infinito rimpianto che ormai attendeva ad un tacito appuntamento come un inseparabile compagno.
Ed all’improvviso il volto si fece adamantino, di vividezza corporea e quasi tangibile con pienezza di sensi.
Cessò quel vetusto musicare, ammaliato. Le dita corsero a vuoto sui manuali, le mani rimasero appese, per un istante le falangi ticchettarono su tasti d’aria, poi ogni moto esaurì.
Il volto era là fuori, tra i fiocchi di neve fitti. E guardava.
Guardava la stanza, il clavicembalo, i candelabri, il focolare, i tanti specchi.
E lui.
Guardava lui.
E lui conosceva quel volto di donna.
Abbandonò il clavicembalo, corse con passo felino ad aprire le grandi ante della portafinestra. La donna scivolò nella stanza come goccia su una foglia e si fermò accanto al clavicembalo.
Il Maestro le si avvicinò, indagatore.
- Siete….siete….Voi? – poi abbassò la voce, scosse la testa – Perdonate, no. Sono vecchio, perdonate….mi sbaglio…è solo una gherminella della memoria. Sapete qui dentro – e così sussurrando poggiò l’indice destro alla tempia – qui dentro ci sono tante caselle, tante e senza indirizzo. E a tal punto replete che ne straripa sempre qualche bruscolino di memorie che poi non so più restituire al proprio domicilio, perciò m’inganno. Questo è certo il caso, vi ho confuso con altra persona. Non ci badate. –
La giovane gli rivolse uno sguardo penetrante, appena sottolineato da un leggero arretrare. Il Maestro lesse un cenno d’accusa.
- Le mie parole sembrano esservi di peso…. Allora….Perdonatemi ancora una volta e ancor più, ecco…ma se invece…Siete davvero Voi? Voi, di materia e di anima? Voi? Siete Voi… Esthelle? Voi…Voi siete giovane, come allora. La vostra pelle…. Non una ruga…Tutto in Voi è perfetto, intoccato dal tempo. Quale sortilegio vi ha preservato? –
Avvicinò un candeliere per meglio indagare quella figura silenziosa. La fiamma delle candele non ebbe un tremolo: ad un palmo dal viso il semplice respiro l’avrebbe turbata, invece le faville s’allungavano quiete nell’aria.
Di quella figura solo gli occhi mostravano il fuoco della vita. In essi vedeva una luce, ma una luce distante, un brillio stellare originato da profondità ignote.
- Siete….siete forse un’ombra? – esitò - Un’ombra giunta qui da un mondo d’ombre? Da un mondo dove il sonno non ha fine? O siete forse sogno? –
Il Maestro fissò il lungo silenzio degli occhi della giovane, in quel silenzio levò lontanissima un’eco, un modulare continuo.
Un suono.
Avvertì un suono.
Si girò d’istinto alla grande finestra spalancata. Nel buio esterno la neve prendeva corpo solo entro la chiarìa proiettata là fuori dalla stanza. In quella frangia di luce incerta udì un ritmo. Un ritmo di danza.
Posò il candeliere – Io vi attendevo. Vi attendevo senza speranza, Esthelle. – Una lacrima sgorgò, liberata finalmente dal giogo della sua prima stupefazione; una stilla greve, drenata dall’ultima riserva opposta alla sua vecchiezza, all’infinita aridità del suo corpo.
- Ed ora siete qui. Siete qui. – ripetè abbandonandosi sulla sedia più vicina. – Seppur d’ignota sostanza. – aggiunse poi.
- Ma quale importanza ha se siete un’ombra oppure no? Se siete un garbuglio di pensieri che han perso la via e si son fatti ricordi? Nessuna. Siete comunque voi. Voi che allora i miei occhi seguivano, voi che i miei orecchi udivano, voi che le mie dita porgevano alle danze. Vi lasciai alle cure del vento che fu più attento…più pronto a trascinarvi con sé. Ma c’era una gran luce nel mio domani, io la vedevo, almeno. Una gran sfolgorare di specchi e d’argenti. Che inganno! In nessuno di quegli specchi ho più visto il riflesso di me. No, in nessuno. Più vi cercavo un’immagine e più la perdevo di vista non appena credevo d’averla colta; la luce precipitava là dentro come in una forra senza fondo ed io rovistavo a tentoni, cieco. Eppure c’era. Il mio volto specchiato nel vostro era così chiaro, così semplice nel disegno. Ma non l’ho veduto. Perché quell’immagine ha viaggiato così a lungo prima di trovare i miei occhi? Quali tortuosità ha percorso in tanto tempo? Ma è giunta, infine. Un giorno è giunta ed ho compreso, ho potuto farlo, ma è stato un duro risveglio. Un risveglio nella tenebra. E’ scesa l’oscurità che circonda tutto ciò che s’è demandato alla voracità del tempo. E’ come un cane affamato, nulla disdegna, tutto accetta e di buon grado. Ciò che a lui si cede non torna, ne fa sua proprietà esclusiva. E’ un carnefice! Ma in fondo benevolo. Ah sì, benevolo! Perché di quel che ha fatto ormai suo talvolta lascia una traccia. Un’eco, sì, qualcosa che appartiene ad incalcolabili distanze ma che si percepisce comunque. Eppure irraggiungibile rimane. Un’ordalìa? Sembra tale, certo. Però è tutto ciò che resta di quel che s’è perso, e quindi inestimabile. Basta una candela, anche nel buio fitto…quella poca luce è sufficiente a diluire la tenebra dappresso e tenerla discoste quel tanto
bastante a scorgere qualche forma. E quell’inestimabile fiammella m’ha abitato per tanto tempo, ma nascosta e incognita. –
La donna posò una mano sul clavicembalo, guardò i tasti, gli ornamenti, le figure laccate. Poi rialzò la testa e tornò a fissare il Maestro.
- Volete che suoni? – chiese – Sì, suonerò per Voi, Esthelle, come un tempo. – abbandonò la sedia e affrontò il Dumont.
La musica sgorgò vitale, scintillante, inebriante.
Nuova.
Nuova.
Il Maestro chiuse gli occhi ed iniziò a seguire quel fiume etereo, quel volo d’airone teso tra valli ignote.
Tra quelle valli la giovane iniziò muovere lenti passi di danza, ora volta agli affreschi del soffitto, ora guardando il Maestro, descrivendo epicicli su altri epicicli ancor più stretti e poi nuovamente dilatati, come un perfetto meccanismo capace di un moto libero dall’attrito del tempo.
- Ecco, vedete? Vedete quanto sono potente? Posso creare ogni sorta di armonia, estrarla dalla mia mente e donarle voce, sì che alzi nell’aria e giunga fino a voi. E poi oltre, una facella che s’avviti nel fiato caldo della stufa e prenda il volo. Sì, fuori da queste stanze malate, lontano da questa vecchiezza interminabile e via…via….via. Via, tra gli accordi dei fiocchi di neve, via con una levità così estranea all’umano…eppure così….così vicina al cuore. Non è malìa questa? Non mi direste un negromante? – Le dita del Maestro si fermarono – Eppure tutto è perso nel nulla! Esthelle, cosa resta di quella musica? Di me? Un passaggio a volo d’uccello, un piegare della luce su un vortice di bruma, un pulsare che si colora breve nella folgore…altro non c’è. Non c’è. L’uomo ha potenza ma ha destino ultimo il vuoto, il cader nel nulla. Un’infinita distanza ci separa, Esthelle, l’infinito che separa il sogno dalla realtà. E solo la morte colma quest’infinito. –
Il Maestro la guardò – Questo avrei detto fino a ieri, fino a stasera. Questo ho pensato mentre sorbivo la zuppa di carote che m’avevan preparato. Ogni mestolata versata nel piatto m’è parsa un fiotto di tempo fuggito, ingoiato da uno sprofondo. Fino a stasera, fino a che ho veduto voi là fuori, nella neve. Ecco…ecco, l’ho detto! Ho completato la più grande magia! Ho aggiunto l’ultimo e più gagliardo ingrediente. Tutto ora prende forma, da un disegno d’ombre emerge una sostanza cui posso dar nome. Voi siete aria nuova, nuovo tempo; l’immobilità recede. Ma avrò ali capaci di levarmi dal suolo? Sono rattrappite, le vedete? Son pesante in questo corpo antidiluviano, pesante di un peso che si moltiplica ad ogni respiro ed ogni respiro è sempre più breve, più composto da vuoto che d’aria. Ce la faremo? Dite, ce la faremo, Esthelle? – Esitante le scrutò gli occhi poi scosse la testa.
- Che dubbio superfluo! Avete ragione: non sareste qui se non confidaste. –
Il Maestro lasciò il clavicembalo, sollevò leggermente il braccio destro, lo piegò alla vita e porse quell’incerto sostegno – Dunque concedetemi il braccio, ma siate voi ad indicar la via. –
S’avviarono così alla portafinestra, sulla soglia il Maestro la guardò ancora. Guardò nell’infinito silenzio del volto di lei, dei suoi occhi stellati.
Inspirò a fondo e aggiunse – Possa la bellezza essere di fronte a noi -.

 

VI

Sul far del giorno governante e maggiordomo si trovarono davanti alla stanza del Maestro, da strappare al sogno, lieto o greve che fosse, alla prima luce per suo espresso desiderio. Al tacito appuntamento i due esitarono, un’interrogazione silente aleggiò un istante, poi si fece verbo:
- L’avete udita, signor Bonvis, la vecchia tartaruga? –
- Certamente. La prego, non chiamatelo così. In mia presenza, quantomeno. –
- Ohhhh, insomma. – sbuffò la Governante – E’ un appellativo benevolo! Così, per celia. Per levar peso al giorno, per indossar una maschera alla brutta stagione. –
- Voi indossereste maschere a qualunque cosa non vi piaccia -
La Governante scosse la testa – Quel che conta è viver al meglio. Siano benvenute le maschere. Voi invece la indossate per star peggio, quella maschera. Quella scorza da mutria. Pensate forse di tenervela appiccicata fino al vostro ultimo risveglio? L’avete vista la nevicata di questa notte? Non è neve di stagione, questa. E difatti stamane c’è pieno sole, chissà che non vi sciolga la tetraggine che indossate sempre! Ma andiamo! V’è pure nevicato sull’animo, per caso? Che ve ne state lì contegnoso senza ragione? –
- Dicevo…l’ho udito, il Maestro – continuò Bonvis, immune al pungolo della governante.
- Parlava – aggiunse la donna.
- Suonava – replicò il maggiordomo.
- Parlava e suonava – la Governante scoccò uno sguardo allusivo – A chi, secondo voi? A chi parlava? -
- Io altre voci non ne ho udite. Sicchè parlava con la propria musica, altra possibilità non vedo. Musica nuova, m’è parso che fosse. –
- Mah! Ch’io ricordi non è mai successo che parlasse con la sua musica. E di giorni qua dentro ne ho visti più di queste assi che ho sotto i piedi! E’ un brutto segno, sapete? –
- Ne convengo, è senz’altro un brutto segno che voi siate qui da più dei pavimenti…che son vecchi e tarlati. –
- Ah! – s’irritò la Governante. – Non crediate di trafiggermi! Basta, non v’ascolto più! –
- L’avete mai fatto? –
- Uhhhhh….la solita solfa! che noia, che noia…Lui è una vecchia tartaruga e voi…Voi ne siete il carapace. Io vi dico che è una brutta novità che il Maestro parli da solo. Sarà meglio informare il dottore -
- Vogliamo piuttosto dar mossa all’ordine del Maestro? Apriamo? – sollecitò Bonvis.
- E apriamo! –
La Governante spinse le porte. Agli occhi dei due si presentò un pavimento velato di candore. Un etereo spaglio di neve lo copriva. Sottilissimo, posato sul clavicembalo, sui candelieri, sui velluti.
Immobili non osarono varcare la soglia. Un biancore gelido entrava dalla portafinestra spalancata e ammantava la stanza d’invincibile silenzio. La testuggine, entrata a cercar rifugio dall’impreveduta temperie, ritratta se ne stava in un angolo, con un monticello candido sul carapace.
- Ma che follia è questa? – esclamò la Governante – Il Maestro ha perso la ragione? E che freddo! Che gelo insopportabile! -
- Maestro! – chiamò deciso Bonvis – Maestro! –
- E’ un’intrusione questa! Han forzato il finestrone! – esclamò la Governante.
- Ma quale intrusione! La fuori c’è solo neve, liscia e perfetta come s’è posata stanotte, un fiocco sull’altro! Guardate voi stessa! –
Madame Le Prete corse alla finestra – E come pensate si possano vedere delle tracce? Se n’han lasciate la nevicata l’ha ormai coperte! –
Un girone di vento entrò nella stanza, sollevò i tendaggi e passò oltre come un’onda. Levò mulinelli di neve qui e là, con mano leggera scostò appena i veli del baldacchino.
La donna s’irrigidì, una saetta scura le traversò il viso – Oh! -.
- Maestro! Maestro! – ululò ancora Bonvis, senza ottener risposta.
- Ma che urlate! Oh! Che disgrazia! Che disgrazia! –
- Maestro! – Bonvis girava per la stanza ansante - Maestro! Maestro! –
- Bonvis! Smettetela! Basta! Ma non vedete? Non c’è più, il Maestro non c’è più! Bonvis!! Oh, che disgrazia!! Che disgrazia!!
Bonvis prese a tremare - Maestro! Maestro! Maestro! No, no. Maestro! -
Ancora tornò nella stanza la mano del vento, dimentica di qualcosa. Sfiorò il clavicembalo. Un folio denso di note vergate di fresco s’adagiò a terra.
- L’ultima musica del Maestro! – gridò Bonvis in lacrime – Prendetela….prendetela…che s’invola! S’invola….–
Ma già l’aria correva via, lesta e con il folio, un coriandolo rapito nel cielo d’infinito zaffiro.

4 commenti

  1. Alberto Salvagno

    Continua a sorprendermi questa tua capacità di adattare lo stile linguistico agli argomenti che ci proponi. Mi sono lasciato dolcemente sommergere da questa incipriata Francia del 1700 come lo spettatore di un film in VR. Mi son perfino ritrovato a grattarmi inaccorto la calvizie quando aggiustavano le parrucche sulla zucca del Maestro. E sicuramente questo racconto - che mi son letto tutto d'un fiato - si presterebbe per un'ottima sceneggiatura.

    Mi confermi che questa volta il doppio ripetersi del capitolo III è solo una svista? Ricordo che un'altra volta il gioco della distorta numerazione dei capitoli l'avevi fatto con spirito sagace (e burlone)

  2. Daniela

    Che io sappia, Albertone, nonostante il vocabolario di Guido sia uno dei più forbiti e assortiti della galassia conosciuta, la parola “svista” non vi compare… :wink:

  3. Guido

    Il capitolo III è ripetuto di proposito. Nel racconto l'incontro con il giovane musicista è  una  sorta di incidentale, come uno sfondo che non agisce sulla storia e un evento che non rileva per il Maestro. La narrazione riprende e la numerazione dei capitoli anche dopo questo momento pausato. Che volete farci, mi diverto con questi piccoli giochetti....

  4. Alberto Salvagno

    :-)

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