26/11/23

RELATIVISTI 9 : GROSSMAN, RICCI CURBASTRO, LEVI-CIVITA

Questo articolo fa parte della serie Relativisti 

 

RELATIVISTI 9: GROSSMANN, RICCI CURBASTRO, LEVI-CIVITA                                             31 marzo 2021

 

 

Proseguendo nella ricostruzione degli anni di incubazione della teoria della RG, rievocati retrospettivamente da Einstein in “Origine della relatività generalizzata”, troviamo questo interessante passaggio:

... L'assioma della eguaglianza delle masse inerti e pesanti poteva ora formularsi in maniera molto espressiva, in questo modo: in un campo di gravitazione omogenea, tutti i movimenti si producono analogamente a quanto avviene in assenza di un campo gravitazionale uniforme.

Se questo principio era valido per un fenomeno qualsiasi ( principio di equivalenza), era una prova che il principio di relatività doveva estendersi a sistemi di coordinate in movimento relativo non uniforme, qualora si volesse giungere a una teoria di gravitazione senza difficoltà notevoli.

Queste riflessioni mi occuparono dal 1908 al 1911 e cercai di trarne certe conseguenze speciali, delle quali non parlerò qui. La sola cosa importante anzitutto, era di aver riconosciuto che non si poteva pervenire a una teoria razionale della gravitazione se non estendendo il principio di relatività.

Conveniva di conseguenza stabilire una teoria le cui equazioni conservassero la loro forma anche con trasformazioni non lineari di coordinate. Ora io non sapevo in quel momento se ciò doveva applicarsi a trasformazioni qualsiasi (continue) o soltanto a talune.

Mi resi conto ben presto che ammettendo, in conformità alle esigenze del principio di equivalenza, trasformazioni non lineari, l'interpretazione semplicemente fisica delle coordinate era destinata a sparire, vale a dire che non si poteva più pretendere che le differenze di coordinate rappresentassero risultati immediati di misure eseguite per mezzo di metri o di orologi ideali. Questa constatazione mi mise in forte imbarazzo, perché non mi era possibile capire, in sostanza, quale significato si doveva allora attribuire alle coordinate nella fisica.

Non giunsi a risolvere questo dilemma che nel 1912...”

Il nuovo attacco al problema avvenne esattamente in coincidenza col ritorno, nell’estate del 1912, di Einstein a Zurigo, dove egli prestò servizio presso il Politecnico Federale per un paio di anni, prima di trasferirsi a Berlino.

Questo suo nuovo soggiorno in Svizzera è cruciale per sviluppare in modo compiuto la teoria della relatività generale, e il merito va ascritto in gran parte ad un suo vecchio amico di studi, di origine ungherese: Marcel Grossmann.

Marcel e Albert si conoscono dai tempi della scuola: avevano frequentato insieme il Politecnico a Zurigo, ed Albert si era trovato così bene lì che cercò di trovarsi un lavoro in Svizzera.

Fu il padre di Marcel a raccomandare l’amico del figlio al direttore dell’Ufficio Brevetti di Berna, ufficio presso il quale il giovane Einstein lavorò a partire dal 1902, fino alla nomina come professore universitario.

Anni dopo Grossmann, divenuto nel frattempo Preside della Facoltà di Matematica e Fisica al Politecnico di Zurigo, convinse il suo vecchio amico, in quel momento a Praga, a tornare in Svizzera.

Grossmann era esattamente il collega di ricerca che in quel momento serviva ad Einstein: un matematico scrupoloso, se necessario disposto – a differenza sua – a “sporcarsi le mani” con meticolose ricerche bibliografiche, ma anche un amico fidato pronto a collaborare.

Ora Einstein era alle prese con il problema che l’estensione del principio di equivalenza a tutti gli osservatori implicava che le leggi cercate dovevano essere indipendenti dalla scelta del sistema di coordinate.

Occorreva quindi un modo intrinseco di descrivere lo spaziotempo, ed Einstein aveva un vago ricordo degli anni in cui, da studente, aveva appreso delle ricerche che Gauss aveva condotto circa un secolo prima sulla descrizione delle superfici nello spazio per mezzo di invarianti, cioè di quantità intrinseche alle superfici stesse.

Einstein chiese dunque a Grossmann di aggiornarlo sui progressi da Gauss in avanti: si dice che, preso dalla disperazione, egli abbia implorato: «Grossmann, aiutami altrimenti impazzisco!».

Grossmann, rispondendo all'accorato appello, nell’agosto del 1912, comunica ad Einstein che molto probabilmente lo strumento teorico che a lui serve è il calcolo sulle varietà di Riemann e lo aggiorna sui risultati di Christoffel, Ricci Curbastro e Levi-Civita.

Le dimensioni dell’universo non sono solo tre, c’è anche il tempo, indivisibile dallo spazio, come l’esperienza della prima teoria della relatività insegnava, per cui forse quelle complicate ricerche su spazi con dimensione maggiore di tre servono a qualcosa, finalmente.

Einstein dunque si mette alla ricerca della soluzione del suo problema: generalizzare l’equazione classica della gravitazione newtoniana. Non si tratta di un cammino semplice: i manoscritti con i suoi conti, giunti fino a noi, raccontano di un viaggio tortuoso, lungo diversi anni, e pieno di errori, che via via si diradano fino ad arrivare alla conclusione che tutti conosciamo.

Non è questo il luogo per entrare nei dettagli della geometria differenziale e del calcolo tensoriale.

Un eccellente approccio divulgativo è accessibile nel blog del Prof. Zappalà: “L'infinito teatro del Cosmo”, a questo link e in altri articoli ad esso correlati.

Una volta inquadrata la descrizione dello spaziotempo con la metrica di Riemann, tra il 1912 e il 1914, Einstein lavora agli ultimi due problemi che restano aperti e che delinea con queste parole:

1 Allorquando una legge del campo è espressa secondo la relatività ristretta, come dobbiamo trasferirla al caso di una metrica di Riemann?

2 Come enunciare le leggi differenziali che determinano la metrica stessa di Riemann?

Ho lavorato a questi problemi dal 1912 al 1914 con il mio amico Grossmann. Abbiamo trovato che i procedimenti matematici per risolvere il problema 1 si trovano enunciati nel calcolo differenziale di Ricci e Levi-Civita.

Per risolvere il problema 2 erano manifestamente necessarie le forme differenziali invariabili di secondo ordine dei coefficienti della metrica di Riemann che descrivono il campo di gravitazione nello spaziotempo quadridimensionale.

Vedremmo ben presto che queste forme erano già state stabilite da Riemann.

Due anni prima della pubblicazione della teoria della relatività generale avevamo già preso in considerazione le equazioni corrette della gravitazione, ma non potevamo affrontare la loro utilizzazione dal punto di vista fisico.

Credevo di sapere, al contrario, che esse non potevano essere d'accordo con l'esperienza.

A questo proposito credevo anche di poter dimostrare, basandomi su considerazioni di carattere generale, che una legge di gravitazione invariabile, relativa alle trasformazioni di coordinate scelte a volontà, non concorda con il principio di causalità.

Tali erano gli errori chi mi costarono due anni di lavoro durissimo finché, verso la fine del 1915, mi accorsi di questi errori e scoprii il nesso coi fatti della esperienza astronomica dopo che, avvilito e confuso, ero ritornato alla curvatura di Riemann.

Nelle frasi conclusive di “Origine della teoria della relatività generalizzata” leggiamo tutta la consapevole e legittima soddisfazione per la conclusione di una impresa leggendaria.

Illuminato dalle conoscenze già raccolte, la meta felicemente raggiunta apparve pressoché evidente e ogni studioso la comprese senza grande sforzo.

Ma queste ricerche, piene di presentimenti, perseguite nell'ombra per lunghi anni, quell'ardente desiderio di raggiungere lo scopo, quelle alternanze di fiducia e di stanchezza, quell'improvviso irrompere della verità luminosa, tutto questo, insomma, non può essere veramente conosciuto che da colui che l'ha vissuto.

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