09/03/21

L'ULTIMO MIRACOLO

Questo è il primo dei "Tesori di Guido" che verranno raccolti nella sezione d'archivio ad essi dedicata

 

Prefazione di Vincenzo Zappalà (Prima parte - Seconda parte)

 

L’ULTIMO MIRACOLO

(di Guido Ghezzi)

I

Padre Fernando rimuginava fisso alla striscia di lardello stesa su una fetta di pane nero davanti a sé. Accanto alla coppia adagiata profumava un bicchiere di vino rosso. La medesima chiosa che concludeva il suo pranzo di ogni giorno. Dalle gambe del tavolo risaliva un secco raschiare di tarli, ritmato come il rintocco di una pendola a rompere il silenzio della stanza.
O forse proveniva dalle viscere di qualcuno dei vetusti altri mobili nella canonica. Difficile dirlo pur nella quiete d’attorno.
Ma quello non era il solito pranzo.
No, proprio no.
Era ancora lì davanti ai suoi occhi quel limbello di carta vergata con la cifra da saldare all’artista. Somma che andava pagata pur superando di molto il contenuto della cassa, anche se il brav’uomo aveva concesso, oltre ad un corposo sconto, una straordinaria dilazione a pregio della specialissima occasione cui aveva prestato il meglio della sua arte.
“La statua di un santo non è incarico di tutti i giorni” aveva detto a Padre Fernando e quel cartiglio l’aveva lasciato sul tavolo della canonica con gesto sfuggente, quasi ritenendosi in difetto a vantare il giusto credito.
Dunque eccola là, la statua del santo. In mezzo alla piazza, sistemata sul suo bel piedestallo di arenaria, tutta di bronzo scuro e lucido. Un bronzo davvero importante, come quelli che si imponevano nelle piazze cittadine…ed era proprio nel suo paesello, il più ignorato, diserto e senza storia di tutti i borghi circostanti.
Ma era adesso il paesello del santo, ora sì che iniziava la storia.
Anzi, ora la storia di quel grumo di case di zappaterra perso nella campagna sarebbe affiorata dall’oceano del passato, ora si sarebbe appreso che una storia in verità c’era sempre stata e per difetto mai ci se n’era occupati, come per tanti altri posti sulla faccia del mondo. Sarebbe finalmente venuta a giorno la vicenda della piissima anima che molto tempo innanzi lì era nata e vissuta, tanto per cominciare. E poi ci sarebbero state celebrazioni ufficiali (già un paio di date l’aveva messe in predicato), ricorrenze, occasioni speciali in cui gli abitanti delle terre circostanti sarebbero sciamati fin lì per vedere la statua, toccarla, pregare opere sopra natura.
Finalmente la venerazione per quello straordinario compaesano diventava qualcosa di più di un moto spontaneo e traboccava dal paese per diffondersi intorno come acqua che un coccio non avesse più modo di contenere.
La proclamazione della Santa Sede aveva dato la stura a tanto fervore, finalmente. Ed era accaduto proprio mentre era lui, padre Fernando, a vegliare sulle poche anime del paese. Tutti quei documenti non erano stati inutili. Non che ci sperasse più di tanto: procedure lunghe, lunghissime quelle previste per la canonizzazione. Aveva continuato a raccogliere testimonianze e indizi quasi per costume, come un officio necessario a tenere in vita una tradizione, e a inviarli alla Congregazione dove s’erano assommati alla pila pregiacente a Roma. Pila così vecchia che i primi esaminatori degli scartafacci eran morti lasciando il compito ai successori, trapassati anch’essi prima di conchiudere il giudizio, eredità raccolta per l’esame ultimo dagli attuali licenziatori della santificazione.
Certo non era stato facile tenere a bada nel frattempo le insistenze dei paesani più infervorati. Più volte in passato il vescovo aveva ammonito a non attribuire la nomea di santo a chi santo non era stato proclamato, ricordando come solo la posizione ufficiale della Chiesa avesse valore su tali faccende. In occasione della nomina di Padre Fernando a pastore di quello sparuto gregge il vescovo aveva rimarcato che in alcun modo non dovesse essere proposta all’occhio del popolo ogni possibile attribuzione di santità fino all’eventuale ratifica della Santa Sede, con ciò alludendo al ciocco di ontano molto tempo prima lavorato da qualcuno in rozza figura benedicente ed eretto all’angolo della piazza.
Padre Fernando neppure aveva osato sollevare l’argomento con i villici, certo che essi non avrebbero più messo piede in chiesa considerando ogni dubbio circa la santità del compaesano un turpe insulto mosso dal Maligno per bocca di quel prete appena giunto a sostituire il precedente canonico, troncato da un colpo apoplettico mentre salmodiava alla testa dell’ennesima processione sotto lo sguardo benevolo del simulacro.
L’unica via parsa praticabile al buon ecclesiastico, in angustia tra tanta ostinazione popolana e l’arcigna reprimenda vescovile, fu quella di chiedere all’Altissimo un cenno di considerazione per il suo cruccio.
Il destino parve dar seguito alle preci quando il paese fu investito da uno straordinario colpo meteorologico che riversò sulla valle torrenti di pioggia violentissima. Il botro dietro la piazza si empì d’acque ribollenti, le sponde vennero unghiate e dilaniate, il declivio franò e l’effigie fu trascinata via fra i gorghi in compagnia di pollai, attrezzi, conigliere e di una capra dall’occhio sbarrato.
Pur partecipe dello sconvolgimento generale causato dalla sciagura Padre Fernando si sentì in certa misura sollevato; considerò tuttavia in cuor suo come, in effetti, nel sollecitare l’operato celeste, non avesse avanzato puntualizzazione alcuna circa le modalità esecutive ed evidentemente l’Altissimo non s’era dato troppo studio a trovare una miglior soluzione.
Ma nella stordita quiete del mattino seguente il simulacro fu rinvenuto in un’ansa del rivo poco a valle, immobile sull’acqua come un barchino all’ormeggio. In precario equilibrio su di esso stavano la capra, intenta a ciancicare un rovo pencolante dalla sponda, e un bambino avvinghiato al braccio benedicente. Il venerato ciocco fu immediatamente recuperato con i suoi due passeggeri, ritornato nella piazza dai paesani giubilanti e rimesso al suo posto. La capra fu resa al legittimo possessore e il fanciulletto, forse di quattr’anni e per certo estraneo al paese, affidato a Padre Fernando in attesa di rintracciarne i familiari.
Non solo quindi la temuta raffigurazione era tornata a dare il tormento all’onesto parroco ma all’impostura s’era aggiunto il fanciulletto, che, animato da energie inestinguibili e ostaggio di una fame lupesca, s’aggirava per la canonica berciando in preda a una disordinata frenesia verbale. L’ostinata frantumaglia sonora angustiava il canonico fino a notte fatta, quando finalmente silenzio e pace lo avviavano al sonno.
Dopo inutili ricerche e nell’impossibilità di cavare dal bimbo informazioni utili alla sua identificazione, l’intero paese espresse con sommo orgoglio la convinzione che s’era di fronte all’operato postumo del sant’uomo. Ogni dubbio, se anche qualcuno ne avesse avuto, andava fugato di fronte alla potenza di quell’ultima manifestazione e Padre Fernando altro non seppe fare che accettarne le conseguenze.
Il fanciullo fu chiamato Facundo e crebbe guardato come fosse tutt’uno con il preteso santo, assieme figlio e protettore del paese. I disordini verbali e la vaghezza di mente del ragazzetto furono senz’altro ritenuti ulteriori segnacoli della sua vicinanza a Dio e al pio defunto.
Spesso ciò che principia in veste provvisoria finisce per divenire consuetudine e tal fu il caso di Facundo che s’affezionò alla canonica e a Padre Fernando al punto da scoraggiare qualsiasi alternativa sua sistemazione. Il prete tentò di trasmettere al ragazzo i rudimenti della scrittura, ottenendo dallo sproloquiante allievo una cornucopia di sgarbi grammaticali allineati in una tremebonda calligrafia, a stento decifrabile. Nella lettura i risultati furono, se possibile, ancor peggiori. Facundo faticava sui testi più semplici come fosse impegnato nell’impervia decrittazione di astrusi codici, inframezzando contorsioni, tartagliamenti e mugolii quando si trattava di dar voce agli scritti. Forse nel convincimento di far cosa gradita all’esausto insegnante spesso modificava a garbo suo parte delle parole e ciò, a scanso di imbarazzanti inciampi, convinse Padre Fernando a dispensarlo dal dar lettura dei brani nelle sacre funzioni.
Coll’avanzare dell’età il giovane si mostrò di cuore aperto, ben disposto all’aiuto in qualunque bisogna e pronto nel sollevare Padre Fernando dalle incombenze di maggior fatica. Tra i tanti compiti svolti qua e là teneva in special considerazione l’accudimento della statua lignea, che ispezionava e nettava ogni giorno. Talvolta, terminate le operazioni, arretrava d’un passo o due e
ristava a fissarla con espressione intensa, a lungo e immobile come fosse lui stesso tramutato in statua e assorto in un muto dialogo precluso al resto del mondo. Quel costume non era affatto parso bislacco ai suoi compaesani che, anzi, lo ritenevano del tutto naturale, indubitato che Facundo era il lampante nesso tra il guardo celeste del santo e il paese. Ad onta dei ripetuti moniti vescovili la devozione dei villani non fece che accrescersi ancora, rinfocolata dallo stesso Facundo che, acceso dalle tante parole ascoltate circa il suo enigmatico ritrovamento, manifestava sempre più il devoto attaccamento al pio uomo, alla sua storia ed all’immagine scolpita nel ciocco.
Per Padre Fernando non vi fu perciò solo profonda soddisfazione quando arrivò il proclama ufficiale della santificazione, ma anche gran sollievo che si fece ancor più largo quando finalmente il simulacro fu deposto in favore della statua.

II

Proprio bella, approvava Padre Fernando al vedere la statua ergersi finalmente nella piazza. Bello davvero quel volto serafico, fisso ad un punto imprecisato a mezz’aria tra il paese e le campagne lontane come guardasse oltre la vita e oltre la morte.
Ecco, considerava, quella statua davvero assettava le cose. Contentava i paesani, che anzi n’erano appieno inorgogliti, scioglieva questioni e faccende con il vescovo, nel frattempo fatto arcivescovo a motivo del gran prestigio suo, e sollevava lui da lunghe angustie.
Il ciocco in verità c’era ancora. Tutti s’eran sollevati contro il suo disarmo perché di fatto la statua bronzea era nient’altro che la nuova e magnifica versione dell’originale legno, questo per di più benedetto dallo stesso santo, come mostrato in tutta evidenza dai noti passati. Dismettere il ciocco? Destinarlo alla fornace del fabbro o farne tavole e conci? Ciò equivaleva a pronunzia di eresia, si protestò. Il simulacro era quindi stato affidato al nolente parroco con la robusta insistenza di trovargli un cantuccio nella chiesa, come di fatto avvenne.
Padre Fernando, certo che la soluzione avrebbe indispettito l’alto prelato che aveva osteggiato l’effigie importuna dal suo primo apparire e fino al giorno precedente la santificazione, spuntò a prezzo di tese discussioni una sistemazione dimessa, appena sfilata dietro l’altare, confidando nella complice ombra che l’avrebbe resa insignificante agli occhi dell’arcivescovo, atteso l’indomani per la solenne cerimonia.
Facundo accudiva l’opera fin dal primo mattino, quando aveva fatto il suo ingresso nel paese coricata sul carretto dell’artista. Da quell’istante aveva atteso con febbrile agitazione ad ogni mossa di scarico e posizionamento e, a giorno avanzato, aveva infine preso a rimuovere ogni detrito e traccia di polverume dal bronzo.
Nemanco un bruscolino ci deve ristare su quella facia, diceva intanto tra sè.
Pure il più stinto opaco s’ha da passar via.
Che ‘l reverendissimo eminentissimo arcivescovissimo Grimaldo l’indomani all’inauguro ha da esser petrofatto da tanta bellezza e da tanta celeste perfezione, da tanto lustro candore.
Bircio dovrà ristare. Bircio da quella tanta luce.
Sì, abbarbagliato dal più santo di tutti i santi.
E lucidava, Facundo. Sfregava, stanava ogni grumetto di polvere, raschiava ogni pallore dal metallo, ogni alone.
Abbarbagliato da coprirsi l’oci ha da ristare, l’arcivescovissimo, perché non c’è santo più santo di quello, al mondo e in cielo.
E lucidava e sfregava.
Mentre Facundo s’industriava con la solita smania sua, il meriggio incupì sotto drappi di nembi sgusciati tra i colli. Padre Fernando, assorto nel gustare il lardello ad occhi socchiusi e finalmente coll’animo cheto, non badò all’improvviso scemare della luce né al groppo di vento che tosto seguì.
D’improvviso, poi, una sciabolata livida accese la stanza e uno schianto immane sventrò l’aria, seguito da uno strascicato squasso, poi dall’accavallarsi di confusi borborigmi e infine da un silenzio tombale.
Padre Fernando lasciò cadere il lardello, corse alla finestra ma non vide altro che il cielo avvolto da nuvolaglia scura e fronde agitate dal vento, poi udì urla e strepiti levarsi dalla piazza e si precipitò fuori.
L’aria era straziata da un alito acre, vago ma diffuso ovunque, come esalasse dal suolo, dai muri e dagli orti.
Vide un capannello di paesani davanti alla statua, molti s’agitavano e vociavano, qualcuno invece sembrava irrigidito nel fissare qualcosa a terra, qualcosa nascosto alla vista dalle terga degli altri. Altri ancora sbucavano dalle viuzze, guardavano e poi prendevano a correre verso la statua.
Padre Fernando si fece largo e finalmente lo vide.
Facundo giaceva a terra supino. Inerte. Il volto bianco come marmo, le labbra serrate e bluastre, i vestiti a brandelli e combusti, le scarpe lontane dal corpo, come due pesci asfissiati.
- L’è bel’e mort! – si ripeteva tutt’attorno – Ussignur! L’è mort! -
Il prete rimase un istante immobile, poi credette di vedere nel corpo esangue un levissimo sollevarsi del petto, come se ne fosse rimosso un pondo. Si chinò su Facundo ma non ebbe la forza di spingere oltre l’indagine. Forse c’era ancora vita in lui? O s’era sbagliato? Ora sembrava davvero morto. Forse però, sì…ecco….di nuovo pareva inspirare.
- Ci vuole un dottore, subito! Correte! –
Due paesani partirono con i giumenti verso i casali vicini, alla ricerca del medico impegnato chissà dove nel suo itinerario di condotto.
Facundo fu portato nella canonica e steso nel suo letto. Nell’immobilità bianca corpo e giaciglio rammentavano a Padre Fernando un coperchio sepolcrale.
Di nuovo però dalla piazza si sollevò un vociare, questa volta più sommesso, un brusìo intimidito, quasi composto.
Padre Fernando tornò nella piazza. Che altro accadeva, ora?
Questa volta il capannello era raccolto proprio sotto la statua del santo. Qualcuno borbottava a capo chino, col cappello in mano, come raccolto in preghiera, qualcun altro guardava in alto e lacrimava.
Il canonico alzò lo sguardo d’istinto sulla statua, sulla testa del santo.
Ebbe un sussulto. Un maglio lo colpì ai timpani, una palla di ghisa allo stomaco. Fece un balzo all’indietro, la vertigine lo spinse un passo di lato e poco mancò che finisse gambe all’aria.
Tornò a guardare la statua.
E la testa.
La testa!
Non reggeva quella visione. Distolse lo sguardo.
Il santo! La testa del santo!
Raccolse le forze e tornò a guardare ancora.
Domine salva nos!
Com’era possibile? Che cosa era accaduto al santo? All’intiera sua testa?
Il volto non aveva più quell’espressione di indifferente beatitudine che l’artista aveva così sapientemente modellato, non c’era più quello sguardo chiaro, aperto sulle infinite distanze tra i colli.
Al sommo dell’austera figura ghignava ora un abominevole buzzo scimmiesco, ammollito sulla spalla sinistra come se il collo non avesse spina. Il grugno urlava con le fauci spalancate, irte di enormi denti carboniosi, zanne guaste e deformi da cui pencolavano un bargiglio biforcuto di lingua e un liquame rappreso scolante dal mento in duplice bava.
Guardare la statua era un supplizio. L’animalesca follia ghignante strideva a tal punto con le membra rilassate della figura che la visione quasi strappava via l’anima dal corpo, era un roboante flato a mezzo d’un canto cherubino, la santità del piissimo uomo ne era scuoiata, eviscerata, stuprata fin nell’estrema sua dimora celeste.
Padre Fernando stava male.
L’intero paese stava male. L’incredulità, lo squarcio dell’anima e l’orrore erano percolate in ogni casa, avevano stordito ogni abitante e sepolto a fondo ogni spunto di reazione.

III

Dopo una vana cerca per i casolari il dottore fu estirpato dal tavolaccio dell’osteria dove aveva affidato ad un fiasco di vino e ad una fumante salama da sugo il compito di ritemprarlo dalle fatiche della giornata e tratto nella canonica.
- Cosa mai vista, parola mia – disse a Padre Fernando dopo essere stato ragguagliato circa l’evento ed aver visitato Facundo, immobile sul letto ad occhi sgranati, in coscienza ma inerte.
- E’ sopravvissuto, m’intendete! Gli s’è scaricato addosso un fulmine, quello che ha arrecato così gran danno alla vostra statua, ed è ancora vivo. Oserei dire che sia pure presente a se stesso, anche se scosso e dimentico dell’accaduto, e che stia in salute, per quanto possibile dopo una simile esperienza –
Padre Fernando ascoltava con stupefazione assoluta. Il fulmine? Così, senza preavviso e senza maltempo, appena qualche nuvoletta nervosa? Un fulmine isolato, senza che ne fossero seguiti altri o un temporale. Una stranezza davvero.
- In salute….insomma… - aggiunse il dottore addentando la salama che aveva portato con sé dopo il sequestro – qualche problema ce l’ha. –
- Grave? Che problema? – s’allarmò il prete.
- Non può parlare –
- Facundo….non parla? – chiese incredulo.
- Articola le parole ma non esce voce, neppure un sussurro. Una stramberia, parola mia. E ci sente anche molto, molto poco. Da quel che intendo. –
- E c’è rimedio a questo? –
Il dottore arrestò la foga masticatoria, si nettò le labbra con la manica e fece due, tre contorsioni con la lingua alla ricerca dei residui frammenti di salama imboscati nel cavo orale.
- Io non saprei che fare, parola mia. Attendere, forse. Lo scoppio deve aver intaccato l’udito, ma potrebbe tornare all’uso col tempo giacchè danni veri e propri non ne ho notati. Chi lo sa? Quanto al parlare…..mah! –
Padre Fernando s’accasciò su una sedia.
Sudava copiosamente.
Che giornata! E il peggio, lo sapeva bene, guatava dietro l’angolo.
Sì, perché l’indomani sarebbe giunto l’arcivescovo, l’eminentissimo Grimaldo de’ Grimaldi.
Lo conosceva bene. Un baluardo di roccia fatto uomo, un paladino della cristianità che brandiva il pastorale a mo’ di stocco, per così dire; un legionario della fede tenuto in special conto a Roma. Fiero, aspro e immune da mollezze che si diceva dormisse, per quel poco che riteneva concedere al riposo, su un ordito di villosi canapacci.
Sarebbe giunto fin lì per celebrare quella statua….quella….quell’empietà orribile…Orribile! Non riusciva neppure a figurarsela nella mente.
- Avete un goccio di vin santo? – chiese il dottore strappandolo al suo cupo rimuginare.
- Là, nella madia. – indicò con gesto stanco - Servitevi a vostro piacimento…. –
Il dottore biascicò quasi si trastullasse con un dentaruolo poi diede fondo alla boccetta con lunghi sorsi.
Mentre Padre Fernando si reggeva il capo l’occhio del dottore fu attratto dal lardello.
- Posso? –
- Prego…..prego….m’è venuto meno l’appetito….. –
Finito il lardello il dottore se ne andò proclamando, ormai brillo, che il giro di visite sarebbe stato ancora ben lungo, che Facundo era stato, parola sua, graziato dalla sorte e che il ciocco aveva fatto, finchè c’era stato, miglior figura della statua.
Nelle ore seguenti Facundo riacquistò le forze e fu messo al corrente della folgore. Davanti all’angosciante deturpazione non fece moto ma rimase per ore fisso alla statua con occhio indagatore, come cercasse una qualche ascosa fallanza in un marchingegno a lui solo visibile.
Dell’inspiegabile sua afonia non parve darsi cruccio più di tanto, l’improvvisa sordità in effetti gli impediva di aver pronta contezza che dal suo parlato non risultava alcun rilievo sonoro. Padre Fernando lo munì di lapis e foglietti ma Facundo non volle saperne, reputando evidentemente insostenibile l’onere della scrittura. Si risolse pertanto a sottolineare il muto articolare delle labbra con vigorosi gesti e frenetici smanacciamenti che lo rendevano simile ad un puparo alla manovra di incorporee marionette.
Padre Fernando consumò suole e pomeriggio aggirandosi attorno alla statua ed incrociando nervose rotte tra la piazza e la canonica quasi fosse impegnato a trovare il passo in un macereto, più volte arrestandosi per dar ascolto a questo e a quel paesano che l’incalzavano preoccupati:
- Come facciamo, Padre? –
- Domani è il gran giorno, abbiamo poco tempo –
- Se fem? -
- Così non possiamo farla vedere! E’ ben brutta! –
- Par un diavul, altro che santo! –
- Pias no….pias no… L’era inscì bela! –
- Che disgrazia! Povera statua! Povero santo! –
- Podi minga vardala…. –
Chi non parlava lo interrogava con occhio smarrito e fuggiva via.
- Qualcosa faremo – rispondeva agitato – Spiegheremo l’accaduto…ma certo così non va mostrata…. Insomma non c’è via che raccontare il fatto così com’è, per quanto appaia da non credere….Epperò rinviare non possiamo, Sua Eminenza sarà già in viaggio…vien da lontano. Voi della Confraternita – disse poi rivolto ai tre più smaniosi che l’angustiavano dappresso – fatevi venir in mente qualcosa…l’arcivescovo vien qua da noi per la statua e la statua deve trovare…-
I tre si guardarono – Ma che possiamo farci, noi? – disse il primo.
- Che idea dovrebbe venirci? – aggiunse il secondo.
- Mi su no…. – concluse il terzo spalancando le braccia –
- Comunque intanto andiamo avanti – li spronò Padre Fernando – tutto dev’essere parato come s’era stabilito: festoni, ghirlande, il coro, i bambini…tutto. -
A sera, mentre il paese s’addentrava nell’ombra con tripudio di banderuole sotto il ghigno folle della statua e Padre Fernando cercava tra mille stenti di colloquiare con Facundo, qualcuno bussò alla canonica. Facundo arrestò lo sgangherato mulinar di braccia e corse ad aprire la porta.
Sull’uscio apparve la moglie di uno dei confratelli. La brava donna reggeva con gran reverenza un cappuccio di tela bianca, floscio e merlettato.

 

IV

L’arrivo dell’arcivescovo fu salutato dal borgo pavesato e giubilante, con tanto di cerimoniose rappresentanze culminate in una solenne processione guidata dall’austero prelato. Questi, benchè molestato dal caldo e vieppiù oppresso dai paludamenti imposti dall’officio, tenne piena fede alla propria fama di coriaceo vegliardo e non mostrò il minimo cedimento alle lunghe fatiche.
Afflitto da una gamba cionca si puntellava col pastorale e procedeva con tale albagia e ritto da lasciar immaginare che l’esercizio tenesse posto irrinunciabile tra i suoi quotidiani impegni, rendendogli ben miglior tempra di quanto concesso dall’età.
Diversamente dalle forze di Grimaldo il comune tripudio s’andava all’opposto affievolendo coll’approssimarsi della solenne inaugurazione della statua. Il monumento campeggiava sotto il sole nascosto da un leggero drappo celeste, bersaglio di sguardi nervosi da parte dei paesani.
Questi attendevano il temuto momento confidando che Padre Fernando avrebbe sfoderato la necessaria risolutezza ma d’altra parte riconoscendo che di tale fermezza mai s’era intravisto un pur labile accenno.
Al segnale convenuto il drappo scivolò via e la statua fu sotto lo sguardo di tutti: un corpo di bronzo lucente sormontato da un fagotto di tela bianca.
- Ma ha la testa coperta! – esclamò l’arcivescovo stupefatto.
Padre Fernando rimase immobile e muto.
- Non è terminata, eccellenza. – chiarì d’impeto in un silenzio fattosi insostenibile.
Poi, prevenendo altri imbarazzanti quesiti, aggiunse, senza ben sapere perché ma in preda ad un’agitazione che montava sempre più e rischiava di spingergli fuor di bocca parole inopportune
– Le dorature. – Lo disse con tale fermezza e convinzione che egli stesso ne rimase meravigliato.
Ora che l’aveva detta, sentiva svolazzare nella testa quella parola. Svolazzava come un caprimulgo costretto in una stanza senza varchi, lui stesso era il caprimulgo, lui stesso da un angolo lo guardava nel suo folle roteare. E una vertigine lo tirava per la tonaca, ora di qua ora di là, come una banda di bimbetti dispettosi. – Che dico? Che son codeste dorature? – Si chiedeva preso dallo smarrimento – Come son fatte? L’aureola del Santo ben sarà dorata…Ma costano…ah, sì. Onerosissime…codeste dorature… -
E proseguì – Mancano le dorature! Il manifattore ancora non ha potuto applicarle. Sapete, il costo non è di poco conto. Anzi… son rimaste in predicato, a dirla schietta. M’intenda, reverendissimo, le dorature ci saranno, infine. Ancora non s’è saldato l’artista pel lavoro fatto…. -
Padre Fernando sentiva le parole affiorare come fossero richiamate da un vortice e non dettate dalla sua intenzione. Quelle parole importune, giunte a fior di labbra, se ne scorrevano fuori quasi avessero propria vita e s’ostinassero a trascinarsi l’una appresso l’altra come anelli di una catena appesantita dall’ancora. Inarrestabili.
- Le cassette delle offerte, benché generosamente riempite secondo le possibilità di ciascuno, raccolgono a malapena quanto sufficiente a sostenere le spese ordinarie della canonica…. -
L’arcivescovo a tali parole drizzò la schiena, torse le labbra in una momentanea smorfia dolorosa e gonfiò il petto lasciando sfuggire un profondo sospiro – Ah! Ma questo è inaccettabile! – sbottò.
- Le statua del santo deve avere le sue dorature! E subito! S’è n’è mai vista una priva? Non sia che la Chiesa di Roma trascuri i suoi santi che ne commisurano la gloria di fronte a Dio! Interverrò presso sua Santità il Papa nostro Padre affinché vi sia concessa metà della somma occorrente ad acconciare la statua. Nel frattempo aggiungerò io personalmente la restante metà a che si possa provvedere l’acconto al signor doratore. –
Padre Fernando sentì un brivido scivolar giù per la schiena fino a fargli formicolare gli alluci. La situazione andava complicandosi a tal misura che sarebbe stato arduo, se non impossibile, porre rimedio in qualsivoglia modo. Qualcosa andava tentato senza indugio.
- Eminenza, la vostra generosità lusinga la nostra misera canonica e questo sconosciuto paesello di campagna, certo immeritevole di tanta longanimità. Non possiamo accettare, i denari vanno destinati ai poveri, ai bisognosi….-
L’arcivescovo lo interruppe con un’occhiata ferma e conclusiva: - Vedo che siete pienamente degni del santo che qui ha vissuto. Avete ogni ragione. Non ricordatemi tuttavia gli impegni che la chiesa onora giornalmente…. Poveri e bisognosi avranno cibo e letto, provvederò personalmente anche a questo in nome del nostro santo e in memoria di questa mia visita in questo luogo….- L’arcivescovo s’appoggiò al pastorale e s’avviò verso la statua.
Padre Fernando fu colto da uno scemar di forze, lottò disperatamente per mantenere l’equilibrio. Il sole soverchiava con aria di sfida, lo schiacciava con un tallone arroventato. Accanto a sé vide Facundo col capo chino e le mani giunte che muoveva le labbra in una frenesia silenziosa e supplice. Supplica evidentemente inascoltata, rilevò per un istante.
I paesani assistevano muti. I copricapo nelle mani, le spalle incurvate, gli sguardi fuggevoli che si posavano ora sull’arcivescovo, ora sulla porta spalancata della chiesa e sui festoni penduli, ora sul volto imperlato di padre Fernando e su quello salmodiante di Facundo, tradivano la loro inquietudine. Sentivano che tutto scivolava verso l’inevitabile, che il loro mondo raccolto al bordo della piazza stava per essere scosso dalla più terribile delle tempeste senza che nulla potesse più scongiurare la catastrofe.
Padre Fernando, frusto nell’impari lotta contro la vertigine, seguì incerto l’arcivescovo. I due attraversarono la piazza, l’uno austero e zoppicante, l’altro due passi addietro, tremebondo e farfugliante.
- Un gran bel lavoro, reverendissima eminenza….ma quel capo così spoglio… neppure pare quello d’un santo…senza le dorature. Intenda…dunque….lo stesso scultore lo disse…una ben brutta vista sarebbe stata la statua incompleta…un santo senza santità….quasi. Suggerì pertanto di rinviarne l’ufficiale…..insomma….lo s’è coperto per….per….riguardo all’arte sua -
Ma Sua Eminenza era ormai un vascello spinto da venti impetuosi e fendeva la calura anteponendo il pastorale ad ogni passo. Padre Fernando ebbe l’impressione che neppure l’ascoltasse, ma dovette ricredersi quando a quelle sue ultime parole l’arcivescovo lo trafisse con un’occhiata sbieca.
– Sciocchezze! E chi sarebbe codesto scultore che non vuol mostrare il lavoro se non perfetto? Il Buonarroti forse? O il Cellini? Dite al vostro Cellini che di santi e santità ce ne occupiamo noi. Lui pensi ai bronzi. –
Così dicendo si fermò davanti al piedestallo.
- Vedete – accennò Padre Fernando drenato delle ultime forze – Occorse un fatto….giusto ieri….sì un fatto strano invero….tal che la statua….ecco…un danno inaspettato….Ma si vuol por rimedio senz’altro…la testa…. –
- Ben l’ho inteso, Padre, che la testa non è quella che dovrebbe! –
Grimaldo, ormai all’acme dell’irritazione per quel bofonchiare e per le ostinate lungaggini, per il caldo, per la fatica e per chissà quali altre faccende sue, drizzò ancor più la schiena e protese il pastorale verso il capo del santo che a quell’ora e da quella posizione si confondeva con il disco solare, costringendolo a stringer le palpebre.
Padre Fernando s’era rattrappito e ripiegato, muto e con le parvenze d’un miserabile afflitto da membra deformi.
L’estremità del pastorale s’infilò tra il collo della statua e il fagotto, l’arcivescovo fece forza e il turpe ghigno trionfò libero nel sole sfolgorante.

V

Padre Fernando giacque l’intera notte nel sudario dei propri tormenti.
Dunque lui era un fingitore? Un umilissimo servo di Dio che aveva così supinamente ceduto al demonio ed alle sue subdole lusinghe?
Questo dicevano i fatti, purtroppo. E lo dicevano con tale forza che persino egli stesso quasi dubitava della bontà del proprio animo e dell’onesta dedizione alla sua missione. Forse il raggiro della Bestia era davvero di tale sopraffina fattura da corbellarlo lasciandogli credere di aver virtuosamente agito ma di essere stato gabbato dal destino. Forse era davvero stato lui stesso a dare forza al perverso meccanismo, a far sì che quanto in potenza si facesse infine reale sostanza.
Il rovello lo assillava, i pensieri danzavano senza disegno tra un dubbio e l’altro, non riusciva ad afferrare una certezza che potesse offrire un pur fatuo sollievo.
Avvertiva a un tempo l’inutilità di quella sua sofferenza, la mostruosità del proprio fallimento, la grandiosità del tradimento del suo antico voto, il vacillare della fede, la vanità e l’impotenza umana.
Sperò che l’alba recedesse, che il confine del giorno arretrasse indefinitamente, che il limbo notturno levasse una cortina tutt’attorno e che la sventura non trovasse la strada per raggiungere il suo povero paesello ed i suoi onesti villani. Anche loro traditi dal suo scellerato tentativo, dalla sua mortifera mollezza, loro che nel momento buio gli avevan riconosciuto cieca fiducia.
L’arcivescovo era diventato una furia. Le sue ultime parole prima di andarsene di gran fretta erano state udite da tutti: aveva ordinato l’immediata rimozione e distruzione della blasfemia posta sul piedestallo di arenaria, annullato ogni destinazione pecuniaria in favore della canonica e minacciato la scomunica per l’intero paese. A lui, a padre Fernando, non un motto. Solo uno sguardo inchiodato, un lampo d’acciaio ch’era una stoccata e che l’aveva aperto in due.
Ma basta! Che tormento inutile! Basta!
Che il tempo segnasse il passo.
E stirasse i secondi in minuti, le ore in giorni ed i giorni in anni.
Ma l’alba rosicchiò le tenebre con arida indifferenza e trascinò Padre Fernando nel nuovo giorno. La luce s’intrufolò tra le gelosie serrate e lo morse, il curato si guardò le mani.
Lì impresso vide il marchio della Bestia.
Balzò a sedere. Si strofinò gli occhi e guardò meglio: il marchio era svanito. Un’allucinazione, uno scherzo dei nervi frusti…ecco, null’altro.
Ma lo vide di nuovo.
Là, eccolo là…sul piede sinistro!
Saltò in piedi e spalancò le gelosie, la luce cristallina invase la stanza, la stanza prese a vorticare poi fu tenebra per un istante e si trovò steso sul pavimento e fisso al soffitto.
La pena riprese ad incalzare.
Il Maligno s’era insinuato nella vita del borgo! Certo! Era così che l’insidia prendeva piede: in vesti subdole, mistificandosi sotto apparenze insospettabili, anzi spacciandosi per l’esatto contrario di ciò che era. Il Maligno li aveva usati, tutti quanti. E lui ne era stato il servo più solerte, il più scrupoloso nell’attendere all’immondo disegno. Inconsapevole certo, ma questo che cosa cambiava? Lui avrebbe dovuto essere il primo a dubitare. Non era forse compito suo vegliare? Lui che avrebbe dovuto tener in asta la lucerna per dar conforto alle anime perse nell’oscurità le aveva infine perse tutte, guidate al baratro.
Cieco e sordo, ecco cos’era stato! Un pastore cieco e sordo!
E quelle nefaste parole che gli eran sortite di bocca! Come meglio apparecchiare all’ira di Sua Eminenza? Come era accaduto? Ah, che stolto! Se v’era modo di attizzare ancor più l’offesa lui l’aveva inventato con quel grullo arzigogolo, quell’insensatezza delle dorature inventata a motivo della già assurda testa incaprettata!
Adesso era tardi. Tardi. Non ci poteva essere alcuna remissione, non più. Era tardi, il Maligno aveva trionfato e portato a compimento la sua macchinazione. Ora non serviva più nascondersi, ora poteva porre la firma a fuoco sull’opera sua.
Era lì.
Lo sapeva.
Era lì per dargli il tormento oltre il tormento.
Lo sentì. Udì quel pigolio secco.
Girò la testa di qua e di là, spinse lo sguardo in ogni angolo. Da dove veniva?
Là, sotto il tavolo! Era là!
No, era alla porta! Nell’ingresso!
Corse da una stanza all’altra inseguito e preceduto dal pigolio, da quel rodere incessante.
Era Lui.
Si annidava nella canonica per chissà quali altri empi progetti…
Lì, sì, proprio lì….in quei forellini nel legno della madia dove custodiva il vin santo e il lardello. Stanarlo! Stanarlo doveva! Cavarlo fuori! Non lo temeva, che altro poteva temere ormai?
Afferrò il crocifisso di bosso e con un coltellaccio lo appuntì fino a farne uno stiletto e con quello forzò ogni forellino.
Ma c’era ancora, quel pigolio. Grattò ogni interstizio della madia, la svuotò, ne strappò via le assi poi passò al tavolo. Lo rovesciò, rovesciò sedie, trafisse ogni mobile, azzoppò sgabelli, pugnalò a morte l’armadio e ne sondò le interiora più intime. Ma l’infernale pigolio continuava, smetteva un istante e riprendeva e grattava.
Trambusto e spacchi furono uditi nella piazza, alcuni paesani si raccolsero davanti all’uscio serrato senza osare un gesto finchè non giunse Facundo, dall’alba in errabonda frenesia per le vie del paese. Quando la porta fu spalancata il clamore si riversò fuori commisto alle urla sconnesse di Padre Fernando. Questi ansimava tra corpi smembrati di mobilio coll’occhi a fessura in cerca del nemico invisibile.
- Fugite partes adversae….omnis immunde spiritus….serpens callidissime…non ultra audeas decipere humanum genus….cessa venenum propinare…- urlava.
Poi parlava sottovoce poi ancora urlava e fendeva con quel suo stiletto scalciando vetri rotti, stoviglie e legni, strappando vestiti e tendaggi.
- Vade, Satana…inventor et magister omnis fallacie…omnis fallacie, Vade! Vade! –
Facundo e alcuni confratelli si fecero campo tra la materia stravolta e tentarono di porre freno allo smaniare cieco di Padre Fernando; nel pandemonio ad un tratto egli si vuotò d’ogni fuoco e perse le forze. Cadde, alzò la testa, fissò Facundo negli occhi poi giaque nell’immobilità assoluta, apparentemente sequestrato al mondo circostante.
- Egli è altrove – dichiarò il dottore a sera già avanzata quand’ebbe visitato il parroco, rimasto perfetto come pietra ad ogni tentativo di scuoterne la mente dal letargo, eccezion fatta per un misterioso e vago farfugliare che di tanto in tanto affiorava alle labbra.
L’agognata carezza del silenzio notturno s’adagiò sul villaggio prostrato. Dietro rare finestre in tremula luce di candela qualcuno vegliava smarrito.
Non era il solo.
Nella piazza diserta una sagoma era immobile sotto la fissità lunare.
Una figura all’apparenza priva di spessore, che proiettava un’ombra allungata a lambire il piedestallo di arenaria.
Ai piedi della statua Facundo fissava la malatesta di scimmia, quella profanazione, quel ghigno blasfemo posto al colmo della ieratica figura del santo.
Ma era il suo santo.
Era il suo santo che dopo tanti anni aveva rinnovato il miracolo della salvezza. Era il santo che aveva ingoiato la folgore. La folgore che avrebbe altrimenti svaporato in un istante la sua carne devota.
Nulla contava se l’immane prova aveva sfigurato il suo volto disteso.
Che mportava di quel muso di scimia, mollomollo con quelle fauci di scimia, di scimia….fauci di scimia piene di zanne storte.
Quello ristava il santo più santo di tutti, di tutti quanti e adesso più santissimo dentro che santo prima fuora, che mportava della scimia di fuora!
Il più certo santissimo di tutti avrebbe presto fatto salvo Padre Fernando…e un domani avrebbe tornato rumori e parole, sì, da portar via quel silenzio ch’è morte, da filar parole come stelle nove che sbrillano via per il cielo e non le sai più.

 

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Le reazioni a caldo della "redazione" dopo la prima lettura del racconto

 

Non un semplice racconto, ma un’opera che va ben oltre, coprendo secoli di pensieri, di speranze e di apparenti sconfitte. Tre personaggi emblematici. Da un lato il buon prete di campagna travolto da eventi più grandi di lui, dall'altro il classico arcivescovo, modello esemplare di una Chiesa basata su regole e soluzioni standardizzate, e poi quella figura fantastica, complessa, potente che è Facundo... l'ingenuità, la semplicità che riesce a scoprire il vero o che, almeno, riesce a dare una perfetta logica a tutta la successione di eventi. 

Sono stato sconvolto e profondamente colpito dal linguaggio e dal crescere del pathos che parte quasi da una favola burlesca alla Boccaccio (se vuoi anche "La mandragola" del Machiavelli) e poi giunge a vette sublimi di potenza e complessità. Come una musica che appare come un ritornello allegro e poi ti accompagna come "Una notte sul Monte Calvo" di Musorgskij, lasciandoti stordito e pieno di dubbi, di pensieri, di ambiguità che sono latenti nell'animo di chiunque." Oppure come quei  film capolavoro di Dreyer (da "Il Vampiro" a "Dies Irae", da "Ordet" fino a "Gertrud"), opere mirabili, cadute presto nell'oblio di questi tempi beceri e monotoni. Agganci anche a Ingmar Bergman e ai suoi "La Fontana della Vergine" e "Il Settimo Sigillo" .

(Vincenzo)

 

Il tuo scritto l’ho trovato non solo bello, ma avvincente. Un gioco di parole, dove ogni termine non è posto lì per caso. Gli stessi nomi propri sono stati studiati a fondo. Sottigliezze che solo chi ama la nostra splendida lingua può usare con tanta raffinatezza. Ho capito e spero di non sbagliarmi che tu scrivi per divertirti. Ed hai perfettamente ragione: le persone che non apprezzano il grande patrimonio che possediamo mai potranno capire. Lascerebbero il tuo scritto a metà e non lo capirebbero.

Ad una prima lettura ho riscontrato l'utilizzo di diverse unità figurative, che permettono al lettore di immaginarsi un mondo che va al di là di quanto espresso dallo scrittore. Una parola e un'immagine assumono diversi significati, rendendo lo scritto misterioso, ambiguo ed estremamente incalzante. Da un lato hai voglia e sei impaziente di giungere al termine, ma, dall'altro, vorresti non finisse mai: una vera storia infinita.

Erano anni che un testo non mi trascinava così a fondo, facendomi immergere in pieno nei personaggi e nell'ambiente. Vorrei poter rilegare ogni tuo racconto, solo per me e tenerlo fra i libri più preziosi.

Grazie Guido per avermi riportata a vivere lo splendido anno della stesura della mia tesi.

(Barbara)

 

Non per tutti i palati, ma un boccone prelibato per quelli sopraffini!

(Daniela)

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