26/03/22

LA QUASI-STORIA DEI QUASI-CRISTALLI * TERZA PARTE

Il presente articolo è stato inserito nella sezione d'archivio Pianeta Terra

 

Terza parte dell’articolo sui quasi-cristalli. QUI e QUI la prima e la seconda parte.

Osservare un cristallo e individuarne le caratteristiche di simmetria non è propriamente immediato, considerato che la morfologia esterna dipende anche dalla velocità di accrescimento delle singole facce, per citare uno dei fattori che possono influenzare la forma macroscopica e renderla non esplicitamente rappresentativa della vera simmetria del reticolo cristallino.

Come è possibile quindi “vedere” la reale struttura tridimensionale del reticolo cristallino di un minerale?

Si tratta di ricostruire una struttura a scala atomica; non è semplice ma nel tempo sono stati messi a punto sistemi molto efficaci. Uno di questi è il metodo della “diffrattometria X a cristallo singolo”, in cui un grano cristallino del minerale viene irradiato con raggi X, ottenendo una figura bidimensionale di diffrazione composta da tracce puntiformi impresse su una apposita lastra. Il cristallo viene fatto ruotare come anche la lastra in modo da raccogliere la radiazione diffratta in tutte le direzioni. La geometria bidimensionale dell’insieme dei punti fissati sulla lastra ha una relazione diretta con la posizione spaziale dei singoli atomi del reticolo e permette quindi di ricostruire i valori degli elementi distintivi della cella unitaria (lati e angoli) e gli elementi di simmetria presenti nel cristallo. La misura dell’intensità di ciascun punto permette inoltre di individuare le specie atomiche presenti nel reticolo (fig. 1).

Fig. 1. A sinistra: illustrazione schematica del metodo diffrattometrico a cristallo singolo. A destra: immagine diffrattometrica di un cristallo di NaCl. La sorgente produce raggi X che incidono sul cristallo, per diffrazione si originano interferenze costruttive della radiazione, queste ultime danno luogo a picchi di varia intensità impressi sulla lastra sotto forma di punti più o meno evidenti. La distribuzione delle tracce puntiformi e la loro intensità rappresenta la traduzione bidimensionale della distribuzione tridimensionale dei vari tipi di atomi presenti nel cristallo e della loro posizione. In tal modo viene ricostruito l’assetto spaziale della struttura atomica del reticolo cristallino sotto esame, quantificandone i parametri reticolari ed individuando le specie atomiche presenti.

La simmetria del cristallo sottoposto a diffrattometria X è riflessa nella simmetria della configurazione visibile sulla lastra ottenuta, che pertanto evidenzia anche gli ordini degli elementi di simmetria.

LA SCOPERTA

Nel 1982 un ingegnere israeliano esperto di materiali, Daniel Shechtman, s’imbattè casualmente in alcuni curiosi dati sperimentali mentre analizzava le immagini ottenute al microscopio elettronico di una lega di manganese e alluminio (Al6Mn), prodotta in laboratorio e da destinare all’industria aeronautica. Incuriosito dalla stranezza sottopose a diffrattometria un cristallo del materiale. La lastra diffrattometrica risultante dalle analisi ai raggi X del campione, ottenuto per sintesi e quindi di origine non naturale, mostrava senza ombra di dubbio una simmetria rotazionale di ordine 10 e anche locali “isole” con simmetria di ordine 5 (fig.2).

Fig. 2. La “storica” lastra ottenuta da Shechtman: sono evidenziati gli elementi con ordine di simmetria rotazionale 10 (poligono in tratto blu al centro) e le “isole” con simmetria pentamera (tratto in giallo).

In sostanza Shechtman aveva ottenuto un dato sperimentale che mostrava una netta e piena violazione delle leggi della cristallografia: un cristallo con elementi di simmetria rotazionale “proibiti”. Il fatto che il cristallo fosse sintetico non rilevava, considerato che le leggi della cristallografia sono basate su elementi geometrici e prescindono dalle modalità di genesi dei cristalli.

Shechtman, a cui erano ben note le leggi cristallografiche, fu il primo ad essere incredulo e sottopose i risultati sperimentali a vari colleghi (come lui all’oscuro della tassellatura bidimensionale pentamera quasiperiodica proposta nel 1974 da R. Penrose) ottenendo solo la ribadita nenia che qualcosa nell’esperimento non aveva funzionato, poiché l’esistenza di un simile cristallo avrebbe reso reale ciò che era manifestamente impossibile. Una profonda sensibilità scientifica avrebbe quantomeno osservato che il famigerato cristallo rendeva reale non tanto ciò che era impossibile ma piuttosto ciò che era RITENUTO impossibile. La differenza non è di poco conto, come le successive vicende avrebbero poi mostrato.

Il principale argomento opposto alle evidenze sperimentali prodotte da Shechtman consisteva nella scelta del cristallo da lui analizzato, formato, secondo gli scettici, non da un unico grano cristallino (requisito imprescindibile richiesto dal metodo diffrattometrico del cristallo singolo) ma da grani gemelli saldati tra loro (geminazione). La presenza di assi di simmetria di ordine “proibito” era perciò solo apparente, una simulazione artefatta da una Natura un po’ dispettosa.

Un professore dell’università di Haifa dove Shechtman aveva studiato, Ilan Blech, non lo liquidò sbrigativamente come i tanti colleghi, anzi si dimostrò molto interessato. Shechtman prese coraggio e nel 1984 i due sottoposero un articolo a doppia firma al Journal of Applied Physics, che lo rifiutò ritenendolo troppo specifico per risultare d’interesse al lettore medio della rivista.

I due ritentarono la pubblicazione con la rivista Metallurgical Transactions, tuttavia il lavoro non sollevò alcun interesse fino a che non giunse sotto gli occhi di alcuni cristallografi impegnati nello studio delle leghe con strutture cristalline non periodiche. Prese vita una collaborazione scientifica che produsse una nuova pubblicazione centrata sulla “fase icosaedrica”, cioè materia allo stato solido con simmetria rotazionale di ordine 5 e 10 (fig. 3).

Fig. 3. L’icosaedro (sinistra) e il dodecaedro (destra), entrambi solidi con assi di simmetria sia 5 che 10, forme ritenute incompatibili con il reticolo cristallino. Il campione analizzato da Shechtman era un “impossibile” cristallo in cui gli atomi occupavano lo spazio rispettando queste simmetrie rotazionali. Il reticolo cristallino risultante era non-periodico ma con un preciso ordine a lungo raggio.

Il lavoro fu infine pubblicato su Physical Review Letters nel 19841.  Il titolo poneva giustamente l’accento sull’esistenza di strutture cristalline con ordine a lungo raggio ma senza simmetria traslazionale (fig. 4).

Fig. 4. Una pietra miliare della fisica dello stato solido: la prima pagina dell’articolo di Shechtman, Blech et al. apparso sul n. 20 del novembre 1984 di Physical Review Letters. La pubblicazione costituisce l’atto di nascita di un nuovo stato della materia solida, successivamente battezzato “stato quasi-cristallino”, e di un importante filone di ricerca, tuttora di grandissimo interesse.

Questa volta Shechtman e colleghi andarono subito al sodo, basta leggere l’esordio del loro articolo (il quale già lancia il sasso nel dormiente lago della cristallografia) che in sostanza dice: “Abbiamo osservato un solido metallico con ordine direzionale a lungo raggio, ma con simmetria icosaedrica, non compatibile con la simmetria traslazionale del reticolo”.

Appena due settimane dopo altri due studiosi, Dov Levine e Paul J. Steinhardt, pubblicarono sulla medesima rivista un articolo in cui i risultati sperimentali esposti da Shechtman si rivelavano pienamente coerenti con un loro modello matematico di reticolo cristallino basato su una fase “icosaedrica” cui lavoravano da tempo. L’articolo proponeva per la prima volta il termine di “quasicrystal” quale abbreviazione di “quasiperiodic crystal” e il concetto di “quasiperodicità” irrompeva sulla scena aprendo un nuovo campo di ricerca scientifica nell’ambito della fisica dello stato solido e della cristallografia (la “quasiperiodicità” non è un termine vago ma una caratteristica ben definita di una tipologia di funzioni matematiche, dette appunto quasi periodiche, formalizzate nel 1925 da Harald Bohr, fratello di Niels).

Ormai smosse, le sonnacchiose acque del pelago cristallografico presero ad agitarsi, lo spiraglio aperto sull’inedito panorama scientifico che s’intuiva all’orizzonte sollevava entusiasmi, stimolava ed attraeva nuovi fondi. L’anno seguente vennero sottoposti alle principali riviste del settore 300 articoli sull’argomento, il numero continuò poi ad aumentare fino a raggiungere, nel giro di pochi anni, le decine di migliaia. Contemporaneamente vennero ottenute numerose ed inequivocabili conferme sperimentali della correttezza delle iniziali osservazioni di Shechtman e anche la pesante obiezione che i diffrattogrammi “impossibili” fossero dovuti a grani con geminazione fu superata.

La coincidenza temporale con cui si manifestarono indipendentemente sia i rivoluzionari dati sperimentali che le solide basi teoriche in grado di spiegarli in modo pressochè perfetto, fu senz’altro un fortunato evento, uno dei rari casi in cui la scienza, anziché a piccoli e faticosi passi, d’un balzo guadagna ampio terreno ed altrettanto ne propone a future ricerche ed applicazioni.

Nel 1985 fu scoperta una ulteriore fase quasicristallina con simmetria decagonale, altre fasi “impossibili” furono successivamente individuate in leghe di vario genere prodotte per scopi commerciali, tra cui Al-Cu-Li e in leghe ternarie Al-Cu-Fe e Ho-Mg-Zn (fig. 5).

Fig. 5. Quasicristallo dodecaedrico ottenuto per sintesi (lega Ho-Mg-Zn). Le 12 facce del quasicristallo sono perfetti pentagoni regolari. La quadrettatura sullo sfondo ha lato pari ad un millimetro.

Nonostante ciò alcuni baluardi resistettero, tetragoni, nel convincimento che qualcosa non tornasse e che i quasicristalli non potessero esistere se non come miraggi sperimentali, abbagli dovuti a subdole forme geminate. Tra essi la voce più autorevole fu quella di Linus Pauling, due volte premio Nobel per la chimica, che nell’ottobre 1985 in una lapidaria lettera a Nature rifiutò recisamente il nuovo stato della materia solida (“Non esistono quasi-cristalli, esistono solo quasi-scienziati”).

Il modello alternativo proposto da Pauling per spiegare gli “impossibili” risultati diffrattometrici ed invocato a sostegno della propria visione tradizionale non trovò alcuna conferma sperimentale, nonostante ciò il suo autore giunse a fine vita senza cambiare opinione.

Shechtman, premio Nobel nel 2011 per la sua scoperta, abbattè così due formidabili principi sovrani della cristallografia: il primo, incontestato per oltre 200 anni, che i cristalli sono strutture periodiche ordinate che non possono mostrare simmetria rotazionale di ordine 5 o superiore a 7; il secondo che i punti impressi sulle lastre dei diffrattogrammi X possono risultare solo da strutture periodiche.

QUASICRISTALLI NATURALI

La scoperta del nuovo stato della materia solida si è rivelata di importanza notevole per la scienza dei materiali e per le ricadute in campo tecnologico. La lega quasicristallina sintetizzata da Shechtman era costituita da granuli molto piccoli e venne ottenuta tramite rapidissimo raffreddamento (1x106 K/sec) ma si rivelò metastabile: se riscaldati i granuli tornavano ad assumere la piena periodicità della fase cristallina.

Gli studi hanno successivamente permesso di individuare leghe ternarie termodinamicamente stabili che conservano la struttura quasicristallina fin quasi al punto di fusione, ciò ha consentito di ottenere i primi quasicristalli per accrescimento molto più lento e quindi di dimensioni molto maggiori (fino a 10 mm) di quelli sintetizzati da Shechtman.

I materiali quasicristallini non sono semplici stranezze da museo. La grande proliferazione di studi ed esperimenti ha messo in evidenza alcune proprietà notevoli, tra queste il fatto che nei metalli quasicristallini un aumento della temperatura riduce la conducibilità elettrica ed aumenta moltissimo la resistenza; superfici trattate con quasicristalli hanno un elevatissimo grado di “scivolosità” (sono utilizzati come antiaderente nelle padelle per cucinare, in alternativa al teflon).

Al di là dell’utilizzo, ormai consolidato, dei materiali quasicristallini sintetici, una questione è rimasta aperta fino a pochi anni fa: esistono quasicristalli naturali?

Non è una semplice questione a margine: in laboratorio i quasicristalli si ottengono per crescita sottoponendo opportuni elementi a condizioni fisiche particolari, una loro eventuale scoperta in minerali naturali costituirebbe un importante indicatore, molto utile a ricostruire le condizioni ambientali che ne hanno permesso la formazione. L’eventuale dimostrata esistenza di minerali quasicristallini, inoltre, aprirebbe un nuovo capitolo della mineralogia e potrebbe suggerire l’esistenza di nuovi processi geologici terrestri o extraterrestri.

Il quasicristallo scoperto da Shechtman data al 1982, successivamente ne sono stati prodotti molti altri, ma si tratta di strutture molto giovani, nessuna di esse ha permesso di definirne il campo di stabilità in termini temporali, poiché tutti i campioni si sono potuti osservare e studiare per non più di qualche decina d’anni. Un quasi cristallo naturale sposterebbe l’età di questi oggetti indietro di migliaia, milioni o forse miliardi di anni, mostrando così i reali limiti temporali del loro campo di stabilità.

E che dire della base classificativa mineralogica, dell’incasellatura di ogni minerale in uno dei 7 sistemi cristallini? Tutta da rivedere, perché un quasicristallo non appartiene a nessuno di essi.

Se la scoperta di Shechtman ha dato l’avvio ad una rivoluzione scientifico-tecnologica (tuttora in corso), un minerale quasicristallino cavato fuori da una roccia comporterebbe una rivoluzione scientifica ancora più radicale e con un gran numero di possibili agganci ad altre discipline.

Ebbene, i quasicristalli naturali esistono.

Va riconosciuto che la Natura si è davvero impegnata a confezionare uno dei suoi più subdoli tranelli, ma alla fine, pur tra mille difficoltà, la curiosità e la determinazione umana hanno portato alla luce l’inganno.

Prima camuffati da geminazioni in microscopici grani, poi, vistisi scoperti, questi “impossibili”, hanno ancora una volta fatto ricorso alle arti del mimetismo per rendersi invisibili, pur figurando da anni tra i reperti coscienziosamente raccolti e catalogati dall’instancabile indagine umana.

Nel 2007 il geologo Luca Bindi dell’Università di Firenze, allora responsabile della sezione di mineralogia del museo di Storia Naturale universitario ed interessato ai fantomatici quasicristalli naturali, notò che tra i materiali quasicristallini sintetici certificati ricorreva l’alluminio metallico in frequente associazione con il rame ed indirizzò le ricerche tra i minerali con queste caratteristiche chimiche. Tra i minerali noti la coppia metallica compariva in due casi, la khatyrkite (Cu, Zn)Al2 e la cupalite (Cu, Zn)Al, due minerali molto rari descritti per la prima volta nel 1985 da mineralogisti russi e rinvenuti nelle aree montuose del Koryak, a nord della penisola Kamchatka, all’estremo nordest della Russia, in occasione di rilievi finalizzati alla ricerca di platino ed oro. Il campione di khatyrkite, in particolare, era stato prelevato sotto forma di una minuscola pepita, in stretta associazione con la cupalite nel letto del fiume Listevenitovyi.

Incredibilmente il primo dei due indiziati, la khatyrkite, era presente tra i 50.000 e più campioni del museo fiorentino: un minuscolo frammento acquistato da un collezionista olandese e facente parte della collezione museale dal 1990 (fig. 6).

Fig. 6. Il campione di khatyrkite appartenente al museo universitario di Storia Naturale di Firenze. Il campione è in realtà un frammento di roccia, un aggregato di alcuni minerali tra cui la khatyrkite, visibile in numerosi cristalli neri dal riflesso metallico. Il campione misura poco meno di 3 mm.

Sottoposto ad analisi di microscopica ottica il campione rivelò l’esistenza, oltre alla khatyrkite ed alla cupalite, di un minerale sconosciuto di composizione simile ai quasicristalli sintetici, presente in aggregati di poche decine di mm. Superando notevoli difficoltà venne isolato un grano del minerale di 1mm che, sottoposto ad analisi diffrattometriche estremamente raffinate mostrò l’esistenza della famigerata simmetria di ordine 5 (Fig. 7).

Fig. 7. In a) l’aggregato di minerali del Museo di Firenze analizzato da L. Bindi in collaborazione con P. Steinhardt dell’Università di Princeton. In b) un’immagine al microscopio elettronico a scansione di una sezione sottile del campione. I quadrati in giallo indicano cristalli di khatyrkite, i cerchi in blu la cupalite, i triangoli in viola un minerale non noto e i pentagoni in rosso il quasicristallo con asse di simmetria rotazionale di ordine 5 (oltre ad assi di ordine 2 e 3), evidenziata in modo netto nel diffrattogramma in c). Nel riquadro all’estrema destra una immagine a 980.000 ingrandimenti della struttura del quasicristallo, i punti più brillanti sono atomi di Al, è evidente la struttura ordinata. Fonte: Steinhardt, Bindi, 20122 e Bindi, Steinhardt, Yao, Lu, 20093.

I risultati ottenuti da Bindi e Steinhardt erano inequivocabili: un quasicristallo naturale era stato infine identificato: una lega di alluminio, ferro e rame con formula Al63Cu24Fe13 in cui i tre elementi si presentavano in rapporti molto simili a quelli delle tipiche leghe quasicristalline sintetiche. I risultati vennero pubblicati nel 2009 sul n. 324 di Science3.

L’epocale scoperta, tuttavia, non convinceva del tutto i più scettici per via di una particolarità del campione. Esso conteneva, oltre ai minerali ormai ben noti, anche alluminio metallico puro, quest’ultimo in natura non compare se non sotto forma di ossidi o idrossidi a causa della sua fortissima tendenza a reagire con l’ossigeno. L’obiezione, sollevata da specialisti dell’unità di cosmochimica della NASA, era ulteriormente rimarcata dalla considerazione che l’effettiva possibilità di una genesi naturale del quasicristallo trovato da Bindi era solo puramente teorica, poiché la sua formazione non poteva prescindere da condizioni fisiche di pressione e temperatura molto elevate, di fatto esistenti solo al confine nucleo-mantello terrestre oppure nello spazio in occasione di urti tra corpi celesti solidi. Tutto ciò considerato il quasicristallo non poteva avere origine naturale, si trattava piuttosto di un sottoprodotto industriale erroneamente ritenuto naturale.

Steinhardt continuò nell’esame del campione originario ed individuò un minuscolo frammento di una particolare fase del biossido di silicio, nota come stishovite, un minerale che si forma unicamente in condizioni di enorme pressione, oltre le 80.000 atmosfere (fig. 8).

Fig. 8. Il diagramma di stato del biossido di silicio (SiO2). Il composto può cristallizzare sotto forma di stishovite in condizioni di elevatissime pressioni, oltre 8 Gpa (circa 80.000 atmosfere), evidenziate nel diagramma dalla campitura in colore grigio.

La stishovite ricorre in alcune meteoriti, la sua coesistenza nel medesimo frammento in cui era stato individuato il quasicristallo faceva presupporre un’origine meteorica. I materiali originati nello spazio presentano particolari rapporti tra i gli isotopi dell’ossigeno, diversi da quelli presenti nei materiali di origine terrestre. In particolare le meteoriti note come condriti carbonacee presentano specifici valori dei rapporti isotopici dell’ossigeno, molto simili ai valori misurati negli altri minerali del campione ospitante il quasicristallo.

La probabile origine extraterrestre e, ancora più importante, la sua possibile appartenenza alle condriti carbonacee necessitava di altre analisi su ulteriori campioni per una conferma, ma dove trovare altra khatyrkite, considerato che l’unico campione disponibile era stato disgregato per sottoporlo alle indagini?

La provenienza del campione fiorentino era nota solo da una generica indicazione riportata sul cartiglio, che peraltro citava una remotissima regione molto vasta. Lo sfuggente quasicristallo, ammesso che non fosse un sottoprodotto dell’attività industriale umana, se ne stava rintanato in chissà quale lenticola sedimentaria ai confini del mondo, custodito da un ambiente selvaggio, disabitato, ostile e quasi irraggiungibile.

La sfida per trovare altra khatyrkite appariva degna del miglior romanzo di Jules Verne e con tutti gli ingredienti cari al visionario scrittore: una terra desolata in capo al mondo, l’enigma di un cristallo che non può esistere, un minuscolo campione descritto nei “diari privati” di un collezionista ormai morto, scienziati in vesti di esploratori estremi e un’avventura in attesa d’esser vissuta.

E avventura fu davvero, a giudicare dalle stesse parole di Luca Bindi che coordinò la spedizione con Paul Steinhardt. Nel luglio 2011 il gruppo (fig. 9), composto da una decina di persone tra cui anche il geologo russo che 30 anni prima aveva rinvenuto il campione poi acquistato dal museo, partì per la regione di Koryak, accessibile solo per qualche settimana all’anno e altrimenti sepolta dalla neve e intrisa dai pantani del permafrost semidisciolto. Tormentati da nugoli di zanzare, sotto il costante pericolo degli orsi e flagellati da tormente di neve, gli ardimentosi setacciarono per dieci giorni una tonnellata e mezza di argilla verde-bluastra, cavandola spesso a mano e sciogliendola nelle acque del gelido Listevenitovyi, ragranellando un pugno di minuscole pepite di khatyrkite (fig. 9a).

Fig. 9. I componenti della spedizione nelle desolate terre del Koryak. Il sesto da sinistra è il geologo Luca Bindi, il nono è il fisico Paul Steinhardt, il terzo da destra è Valery Kryachko, il geologo che nel 1979 raccolse il campione poi finito al museo di Firenze. Sullo sfondo gli spartani ma inarrestabili mezzi cingolati russi utilizzati per attraversare la tundra fino al punto del ritrovamento. Fonte Steinhardt, Bindi, 20126.

 

Fig. 9a. Scatti di spedizione: da sinistra in alto in senso orario: rilevamento geologico dell’area, esame speditivo di campioni interessanti, estrazione dell’argilla lungo le sponde del Listevenitovyi, separazione delle pepite dall’argilla per lavaggio tramite “padelle” (la vecchia tecnica dei cercatori d’oro, sempre attuale). Fonte Steinhardt, Bindi, 20126.

I campioni, una volta sottoposti alle analisi di laboratorio confermarono la presenza di 9 grani contenenti quasicristalli identici allo storico capostipite isolato nel 2007 da Bindi e Steinhardt, ciascuno non più grande d’un granello di sabbia. Inoltre i grani rivelarono l’esistenza al loro interno, di “condrule”, le strutture tipiche delle condriti (fig. 10).

Fig. 10. Sezione dei grani n. 5 e n. 121 raccolti nella spedizione in Koryak, in entrambi sono ben visibili le tipiche “condrule”, indicatrici di origine meteoritica dei grani. Fonte MacPherson, Andronicos, Bindi et al. 20134.

L’esistenza del primo quasicristallo naturale fu quindi confermata e la nuova specie mineralogica venne denominata “icosaedrite”. Confermati furono anche i valori dei rapporti isotopici dell’ossigeno presente nei vari frammenti con l’icosaedrite, che resero quasi certa l’origine extraterrestre e l’appartenenza alle condriti carbonacee, una delle quali potrebbe aver impattato la superficie terrestre nella regione di Koryak non più di 8000 anni fa (il sedimento da cui furono estratti i campioni risale all’ultimo periodo glaciale). La spedizione non riuscì tuttavia a trovare alcuna evidenza di un cratere.

Nel 2015 Bindi ha aggiunto una seconda specie quasicristallina naturale all’icosaedrite, anch’essa rilevata all’interno di uno dei grani recuperati nella spedizione in Koryak e denominata “decagonite” (Al71Ni24Fe5), cui ha fatto seguito l’identificazione di una terza specie nel 2016.

TESTIMONI DALLO SPAZIO

La presenza di icosaedrite all’interno di una condrite carbonacea testimonia la stabilità del quasicristallo su tempi geologici, forse per periodi di miliardi di anni, considerato che le condriti carbonacee sono ritenute essere elementi primordiali del sistema solare, risalenti alle sue prime fasi di formazione.

Ulteriori studi molto dettagliati da parte del gruppo di ricerca Bindi-Steinhardt5 hanno mostrato evidenze di un duplice fenomeno di impatto all’origine dell’icosaedrite del meteorite Khatyrka. Le fasi più antiche presenti nei grani sono state datate a circa 4.5 miliardi di anni e si sarebbero formate in occasione di un violento impatto nel contesto della primitiva nebulosa pre-solare. Secondo il modello suggerito, l’impatto avrebbe dato luogo ad una distribuzione eterogenea di temperatura e pressione che in alcuni settori hanno rispettivamente raggiunto almeno 1200 °C e superato le 50.000 atmosfere, condizioni sufficienti a fondere i minerali di Al-Cu. Questi, raffreddandosi repentinamente, avrebbero permesso la formazione dei quasicristalli.

Il secondo impatto, più recente, avrebbe dato luogo ad una seconda generazione di quasicristalli, di composizione differente.

Nel 2018 altri particolari sono stati ipotizzati, contribuendo a definire la storia della condrite Khatyrka. Misurazioni sui gas nobili leggeri intrappolati nei cristalli di olivina costituenti i frammenti del meteorite e datazioni radiometriche indicano che il meteoroide Khatyrka si sarebbe staccato dall’asteroide genitore 2-4 milioni di anni fa ed il secondo impatto sarebbe avvenuto circa 100 milioni di anni fa. Una serie di ulteriori considerazioni basate su analisi di carattere astronomico ha indirizzato la ricerca del fantomatico genitore verso la fascia asteroidale principale, indicando quale principale indiziato l’asteroide 89 Julia (fig.11).

Fig. 11. L’asteroide 89 Julia, possibile origine del meteorite Khatyrka. 89 Julia ha un diametro di circa 145 km (fonte JPL Small Body Database). Immagine ottenuta con il telescopio VLT (Paranal Oss., Cile). Osservazioni condotte con il medesimo strumento hanno individuato sull’asteroide la probabile presenza di un cratere da impatto di circa 70-80 km di diametro, risalente a non più di 100 Ma.

L’abbondanza di fasi quasicristalline nell’universo è argomento dibattuto, l’averne trovate altre due oltre all’icosaedrite nella medesima condrite suggerisce la possibilità che i quasicristalli non siano così rari. Al contrario, se si dimostrassero molto rari la loro cristallizzazione sarebbe un fenomenale indicatore di condizioni molto particolari, cioè di fenomeni ben specifici. Una sorta di cartina al tornasole per la planetologia.

Al momento Khatyrka resta il solo meteorite latore di quasicristalli ma va rilevato che non sono pochi gli esempi di meteoriti contenenti leghe di Al-Cu-Fe, tra cui il micrometeorite KT01, rinvenuto nel deserto nubiano del Sudan nel 2013, di morfologia assai simile a Khatyrka; la condrite Suizhou L6, caduta in Cina nel 1986; il meteorite ferroso Mundrabilla, trovato nel 1911 in Australia; l’ureilite (meteorite di composizione ultrafemica) Graves Nunataks 95205, trovata in Antartide nel 1995.

Sperimentalmente sono stati prodotti quasicristalli basati sul vanadio piuttosto che sull’alluminio, altri quasicristalli dodecagonali sono stati rinvenuti in leghe quaternarie di sintesi, basate sul manganese e comprendenti cromo, nichel e silicio. Ciò amplia il campo di chimismi che possano dar luogo a quasicristalli naturali, di origine cosmica o terrestre che siano.

Il settore di ricerca è relativamente recente e va osservato che solo le analisi estremamente dettagliate condotte sui frammenti di Khatyrka hanno permesso di rivelare l’esistenza dell’icosaedrite, della decagonite e del terzo minerale quasicristallino, per ora senza nome. L’enorme massa di campioni minerali custoditi nei musei e nelle varie raccolte sparse nel mondo solo in minima parte è stata esaminata con tali strumenti ed è significativa la probabilità che qualcosa (e forse più di qualcosa) sia sfuggita. Del resto è bene ricordare che i quasicristalli hanno a lungo viaggiato per il mondo in incognito, ben nascosti nelle leghe metalliche scambiate commercialmente. Non se ne conosceva l’esistenza e quindi nessuno li cercava, ed a ragione perché le leggi della cristallografia parlavano chiaro e dicevano che simili oggetti non potevano esistere.

La cerca è appena iniziata ed è troppo presto per fare qualsiasi posizione sulla rarità o meno dei quasicristalli naturali.

Tuttavia Bindi e Steinhardt sottolineano un aspetto significativo: ci sono indicazioni che nella nebulosa pre-solare fossero presenti al più una dozzina di minerali; nelle prime fasi di accrezione planetaria (in cui si formarono anche le condriti come Khatyrka) si stima il loro numero non eccedesse la sessantina di minerali.

Se i quasicristalli si formarono come risultato di collisioni in queste prime fasi, come suggeriscono gli studi condotti sui resti del meteorite strappati alle argille della tundra siberiana, è lecito ipotizzare che essi siano tra i minerali tipici di questa primordiale parte del processo di formazione dei sistemi planetari.

Il sistema solare, dal punto di vista astronomico, non sembra avere caratteristiche peculiari: una stella di età media in una galassia non particolare, una possibile estrapolazione porta a ritenere perciò plausibile la presenza dei quasicristalli un po’ ovunque nell’universo, sebbene in quantità massivamente ridotta.

La quasi-storia dei quasi-cristalli rappresenta un affascinante esempio di rivoluzione scientifica, ne riassume tutti i momenti: un paradigma consolidato, l’incerta emersione di un’anomalia, la crisi del paradigma, la nascita di un nuovo paradigma, il suo consolidamento. Inoltre tutto prese le mosse da un’osservazione casuale, vi fu l’occhio pronto a cogliere quello che a cento altri occhi era sfuggito; un grande ruolo ebbero l’interdisciplinarità e la permeabilità dell’informazione tra ambiti scientifici diversi, a riprova che la Scienza è una sola, sebbene con molte facce.

Infine la ciliegina sulla torta: nel 1981, prima che Shetchman notasse una microscopica forma “impossibile” tra mille altre, Alan L. Mckay, un eclettico cristallografo britannico, pubblicò su Kristallografiya (Soviet Physics Crystallography) un preveggente articolo teorico intitolato “De nive quinquangula: on the pentagonal snowflake” in cui, basandosi sulla tassellatura di Penrose, propose una ipotetica struttura reticolare quasiperiodica con asse di simmetria di ordine 5, bidimensionale e tridimensionale, concludendo lo scritto con profetiche parole: “esso esemplifica una distribuzione in cui ci si potrebbe imbattere ma che potrebbe passare inosservata se non attesa”.

1 – https://www.researchgate.net/publication/246810105_Metalic_Phase_With_Long-Range_Orientational_Order_and_No_Translational_Symmetry

2 – https://www.researchgate.net/publication/233447372_Once_upon_a_time_in_Kamchatka_The_search_for_natural_quasicrystals

3 - https://www.researchgate.net/publication/26268382_Natural_Quasicrystals

4 - https://www.physics.princeton.edu/~steinh/maps12170.pdf

5 - https://wwwphy.princeton.edu/~steinh/LinEtAl2017.pdf

6 - https://www.researchgate.net/publication/230643198_In_search_of_natural_quasicrystals

 

3 commenti

  1. Alberto Salvagno

    Hai scritto:"Una lega di manganese e alluminio (Al6Mn)" e poi altre formule ancora più complesse. Ma non so come leggerla, apparentemente sembrerebbe la formula chimica di un composto. O si intende una lega formata da 6 parti di alluminio e una di manganese?

  2. Guido

    La formula si riferisce alla composizione della cella unitaria. In Al6Mn ci sono 28 atomi nella cella unitaria, 24 sono di Al e 4 di Mn. In molti casi i rapporti tra le specie chimiche sono non-stechiometrici.

    Il discorso si fa complesso quando si scende nel dettaglio, poichè nelle leghe metalliche avviene la sostituzione di alcuni atomi dei nodi del reticolo con altri, detti "vicarianti". L'alluminio metallico puro ha una struttura cristallina molto compatta che impedisce ad altri atomi di infilarsi negli spazi interstiziali tra un atomo di Al e l'altro. La lega si ottiene scaldando una miscela di Al e l'atomo vicariante, quest'ultimo in percentuali varie (nella misura di qualche punto percentuale), e sovraraffreddando il tutto. Nella solidificazione qualche atomo vicariante va a prendere il posto di qualche atomo di Al e lì viene bloccato dal raffreddamento.

    La cella unitaria è obbligata a deformarsi poichè il raggio atomico della specie atomica vicariante differisce da quello dell'alluminio e quindi anche la geometria del reticolo cambia. Le condizioni di raffreddamento condizionano la simmetria della cella unitaria ottenuta, che come abbiamo fin qui visto, può essere anche a simmetria "proibita". Lo scotto che si paga è però la perdita della (perfetta) periodicità a lungo raggio.

  3. Alberto Salvagno

    Molto chiaro, grazie

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