02/10/17

I MIEI AMICI ASTEROIDI (7): "L'affaire" Nemesis

Il presente articolo è stato inserito nella sezione d'archivio Pianeta Terra

 

Ricca di colpi di scena, interminabile come una telenovela, appassionante più di un giallo: è la vicenda delle estinzioni biologiche di massa, tra cui la celebre scomparsa dei dinosauri, e la conseguente ricerca di cosa può averle causate. Nessun dubbio sull'esecutore materiale, ma... chi è il mandante?! Quella che segue è la trascrizione di un articolo del sottoscritto, pubblicato sulla rivista "L'Astronomia" dell'aprile 1988. Al termine, un sintetico aggiornamento sull'evoluzione delle ricerche in materia, opera della infaticabile Daniela, e una breve conclusione del tutto soggettiva.

 

Enormi mandrie di giganteschi erbivori, dalle forme più strane e bizzarre, pascolano pigramente in sconfinate praterie mentre incombe su di loro il costante pericolo rappresentato dalla più terrificante macchina di morte che abbia mai calcato il suolo terrestre: il Tirannosaurus Rex. Nel cielo volteggiano, pari a creature da incubo, i mostruosi progenitori dei nostri uccelli.

Questa è la classica – anche se un poco stereotipata – visione della vita sulla Terra durante l’Era Mesozoica. Ma, al di là di tale rappresentazione dal sapore fumettistico, è indubbio che i dinosauri siano stati i dominatori incontrastati del nostro pianeta per oltre 150 milioni di anni. La loro egemonia non era tanto dovuta ai più mastodontici – e per questo famosi – tra di essi (brontosauri, brachiosauri, tirannosauri, triceratopi, stegosauri, ecc…), quanto ad una serie numerosissima di creature più piccole e più veloci che andavano affinando capacità di movimento, di coordinazione, di reazione estremamente sofisticate. Basti dire che si sono trovati fossili indicanti la presenza del pollice opponibile, meccanismo fondamentale per la manipolazione degli oggetti.

Si era quindi di fronte ad una specie in piena evoluzione, al cui strapotere potevano a fatica sopravvivere i piccoli mammiferi, già apparsi da decine di milioni di anni, ma soggetti ad un ruolo di sudditanza che non concedeva loro apparenti vie d’uscita.

Poi il dramma.

Migliaia di specie vengono letteralmente cancellate in un tempo geologicamente brevissimo. Nuovi insperati orizzonti si aprono per i sopravvissuti.

L’incapacità di spiegare in modo convincente la causa di tutto ciò, ha fatto dell’estinzione dei dinosauri uno degli enigmi più grandi e più celebri tra quelli legati alla storia della Terra. Celebrità che, improvvisamente, si è accentuata allorché, verso la fine degli anni ’70, un fatto nuovo ha aperto la strada ad una rivoluzionaria ipotesi.

In Italia, nella gola del Bottaccione vicino a Gubbio, viene scoperto un sottile straterello scuro che si colloca proprio come linea di confine tra i sedimenti del periodo Cretaceo e quelli del Terziario, in corrispondenza temporale, quindi, con l’enigmatica estinzione avvenuta circa 65 milioni di anni fa. Al di là del fatto contingente, questa scoperta attiva tutta una serie di implicazioni che, anno dopo anno, rivestono un interesse sempre più generale, coinvolgendo problematiche che vanno dall’evoluzione delle specie viventi alle interazioni del nostro pianeta col Sistema Solare e di quest’ultimo con la galassia di cui fa parte.

iridio
Foto del celeberrimo straterello scuro "all'iridio" rinvenuto per la prima volta nei pressi di Gubbio (PG) dal geologo Walter Alvarez mentre analizzava i depositi sedimentari dei periodi Cretaceo e Terziario

Le varie ipotesi formulate hanno sollevato, ovviamente, un gran polverone, suscitando discussioni e critiche anche molto accese. Nel presente articolo cercherò di fare una rapida, ma spero esauriente, cronistoria degli eventi. Prima di iniziare il racconto di questo vero e proprio “giallo”, mi si consenta, però, di puntualizzare brevemente alcuni fatti importanti.

Indipendentemente dalla validità e dalla plausibilità dei risultati finali, qualcosa di fondamentale è già stato raggiunto: si è riusciti a coinvolgere in uno stesso problema specialisti provenienti da diverse discipline quali, per esempio, la biologia, la geologia, la paleontologia, la planetologia, l’astrofisica. Malgrado le iniziali incomprensioni e l’affiorare di qualche preconcetto, va registrato con piacere un nuovo e stimolante modo di fare Scienza, che si oppone all’eccessiva specializzazione raggiunta nei vari campi. Anche se tutto dovesse risolversi nella classica bolla di sapone, visto che le ipotesi più recenti lasciano il fianco scoperto a moltissime critiche, qualcosa sarà comunque rimasto: la consapevolezza che certi problemi possano anche essere affrontati sotto angolazioni meno convenzionali.

Ma torniamo ai fatti. Come già accennato, i vari eventi che caratterizzano la nostra storia non si discostano molto da quelli di un vero e proprio intrigo poliziesco; useremo perciò questa analogia per schematizzare la sequela degli avvenimenti.

Tutto comincia con la scoperta di un cadavere: l’estinzione dei dinosauri. I pochi indizi a disposizione fanno pensare che si tratti di un delitto e le indagini sembrano convergere verso un possibile omicida: un asteroide.

Caso risolto? Assolutamente no!

Ulteriori ricerche portano al classico colpo di scena: il crimine potrebbe non essere un evento isolato, bensì far parte di una catena delittuosa precisa e programmata: le estinzioni biologiche si ripetono periodicamente.

In tal caso è ovvio pensare che vi sia una vera e propria organizzazione che regge il filo della matassa; le cose si complicano: non basta più cercare gli esecutori materiali – sciami di comete – ma bisogna arrivare fino ai mandanti, e qui le indagini si fanno veramente difficili: una piccola stella compagna del Sole o l’oscillazione di quest’ultimo rispetto al piano della galassia?

L’intrigo è ben congegnato, non v’è dubbio, e sembra essere uscito dalla penna di Agatha Christie. Purtroppo non abbiamo ancora trovato l’Hercule Poirot in grado di dipanare l’ingarbugliata matassa. Dobbiamo accontentarci di ipotesi ancora ben lontane dal definire un quadro del tutto logico ed inattaccabile.

Avviciniamoci allora al “dossier” analizzando i vari indizi, riferendo sulle varie ipotesi e sui loro punti deboli, accennando alle implicazioni di maggior rilevanza, ma lasciando al lettore la valutazione finale. Chissà mai che un novello Sherlock Holmes non possa, alla fine, esclamare “Elementare Watson… elementare!”

Non solo dinosauri

Le rocce sedimentarie che caratterizzano gli Appennini sono formate essenzialmente da conchiglie di minutissime creature – i foraminiferi – che si dono depositate sul fondo marino attraverso decine di milioni di anni. Nei pressi di Gubbio, lungo profonde spaccature, è possibile oggi vedere all’aria aperta questi strati accumulatisi in un periodo che va da circa 185 a circa 30 milioni di anni fa.

Walter Alvarez, figlio del Premio Nobel Luiz Alvarez, e i colleghi Frank Asaro e Helen Michel dell’Università della California a Berkeley, mentre studiavano questi depositi, si resero conto che un sottile strato scuro divideva i sedimenti del periodo Cretaceo da quelli del Terziario. Analizzando i fossili dei foraminiferi sopra (depositi più recenti) e sotto (depositi più antichi), si accorsero che vi era un drastico cambiamento: negli strati posteriori mancavano completamente i fossili dei foraminiferi più grandi.

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Era chiaro che, in concomitanza col depositarsi dello straterello scuro, gran parte della microscopica fauna marina era letteralmente scomparsa. Tenendo conto che lo straterello coincideva anche col periodo della famosa estinzione dei dinosauri, risultò ovvio che uno studio più approfondito era oltremodo necessario. Si procedette allora ad un’analisi chimica dei sedimenti basata su ventotto elementi, e le loro abbondanze nella sottile striscia divisoria risultarono del tutto simili a quelle riscontrate nei depositi superiori ed inferiori, tranne che per un elemento: l’iridio.

L’iridio fa parte del gruppo del platino ed è caratterizzato da un’altissima densità, ventidue volte circa superiore a quella dell’acqua. Sulla crosta terrestre l’iridio è molto raro e ne rappresenta soltanto la decimilionesima frazione, in quanto la maggior parte di esso è sprofondata, con tutti gli altri elementi più pesanti verso il centro del nostro pianeta quand’esso era ancora allo stato fluido. Nello strato di Gubbio se ne riscontrò invece un’abbondanza anomala, centosessanta volte quella normale. Il materiale contenente l’iridio non poteva perciò essere di origine terrestre e qualcosa doveva averlo trasportato fin sul nostro pianeta.

Si pensò dapprima all’esplosione di una supernova, ma considerazioni di tipo astronomico e chimico fecero ben presto cadere questa ipotesi. Lo strato di Gubbio era troppo simile al materiale planetario per essersi formato al di fuori del nostro Sistema Solare. Si doveva allora cercare un oggetto che avesse conservato le abbondanze dei vari elementi inalterate attraverso la tormentata storia del Sistema Solare, un corpo primitivo insomma.

L’assassino sembrava essere smascherato: un asteroide del gruppo Apollo-Amor. Questi piccoli corpi hanno, infatti, la poco piacevole prerogativa di muoversi su orbite intersecanti quella della Terra. In base al loro numero, stimato oggi con sufficiente accuratezza, si può stabilire che un impatto tra il nostro pianeta ed un oggetto di circa 10 km di diametro è statisticamente prevedibile in media ogni cento milioni di anni.

D’altra parte, questo tipo di interazione catastrofica è del tutto avvalorata dai molti crateri da impatto, delle più svariate dimensioni, scoperti sul suolo terrestre. Inoltre ricerche eseguite in varie parti del globo dimostrarono che lo straterello “all’iridio” era presente un po’ ovunque: la terra ne era stata letteralmente avvolta circa 65 milioni di anni fa. Ulteriori studi portarono anche a scoprire che non solo i dinosauri e i foraminiferi si erano estinti, ma addirittura il 70% delle specie viventi: una vera e propria ecatombe planetaria.

Ricostruiamo allora i fatti. Un oggetto di circa dieci chilometri di diametro precipita sulla Terra alla velocità di qualche decina di chilometri al secondo. Molto probabilmente finisce in qualche oceano, sollevando un’ondata di circa un chilometro; questa si propaga a velocità incredibile, investendo le terre emerse e spingendosi all’interno di esse per centinaia di chilometri. La polvere sollevata dall’impatto raggiunge in breve gli strati atmosferici e in poco tempo avvolge il nostro pianeta in un velo scuro, impenetrabile ai raggi solari.

La notte e il gelo calano sul globo terrestre, le piante muoiono, gli animali meno resistenti o meno abituati a condizioni di vita precaria soccombono velocemente, le varie catene alimentari si rompono o subiscono alterazioni incontrollabili e irreversibili. Quando, dopo qualche mese, la polvere si deposita al suolo, il Sole torna ad illuminare un mondo completamente sconvolto ed irriconoscibile.

Tutti d’accordo su questa ipotesi? Ovviamente no.

I maggiori dubbi vengono sollevati dai paleontologi, i quali asseriscono che l‘estinzione dei dinosauri non è stata repentina, ma si è protratta per migliaia o addirittura centinaia di migliaia di anni. Ciò ovviamente non contraddice la caduta di un asteroide, confermata dallo strato di Gubbio, ma suggerisce che la vera causa del disastro biologico sia stata un’altra, di tipo puramente terrestre. Una interessante possibilità per collegare estinzione di massa e strato di iridio senza invocare corpi alieni è stata recentemente ventilata da Officer e Drake, geologi del Darmouth College. Essi ipotizzano che in tempi remoti il mantello terrestre abbia avuto un notevole innalzamento (e vi sono in realtà prove concrete di ciò).

Se materiale ad alta concentrazione di iridio fosse stato presente nel mantello, una serie di eruzioni vulcaniche di enorme portata lo avrebbe poi potuto espellere all’esterno; questo, depositandosi al suolo, avrebbe infine prodotto il famoso straterello incriminato, in un periodo di tempo anche molto lungo. Essi basano la loro ipotesi anche sulla presenza di una grande abbondanza di iridio individuata recentemente nel materiale lavico eruttato dal vulcano Kilauea nelle isole Hawaii.

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L'enorma caldera del vulcano Kilauea nelle isole Hawaii. Da bocche vulcaniche minori, come questa della foto, fuoriescono ancora gigantesche colate di lava che a volte raggiungono l'oceano. In una di queste è stata recentemente riscontrata un'anomala abbondanza di iridio

Di contro, nuove scoperte sembrano invece confermare l’impatto di un oggetto alieno. Bohor e collaboratori dell’U.S. Geological Survey hanno infatti rinvenuto nello strato di confine tra Cretaceo e Terziario un numero notevole di grani di quarzo, mostranti chiare evidenze di un cambiamento di struttura dovuta a pressioni elevatissime (il cosiddetto metamorfismo da shock). Simili grani sono stati trovati finora soltanto vicino a crateri causati da cadute di meteoriti o da esplosioni atomiche.

L’analisi degli indizi sembra far concludere che la maggior parte delle prove raccolte finora siano a favore dell’ipotesi di Alvarez, resta comunque un ragionevole dubbio, di cui la giuria dovrà tener conto.

Le estinzioni si ripetono?

L’idea che le estinzioni biologiche si siano ripetute periodicamente durante la storia del nostro pianeta risale agli anni ’70, ma fu solo dopo un’accurata analisi eseguita sulle famiglie dei fossili da Raup e Sepkoski, nel 1983, che il mondo scientifico cominciò a considerare seriamente una simile ipotesi. I due paleobiologi dell’Università di Chicago limitarono il loro studio agli ultimi 250 milioni di anni, in modo da poter considerare solo dati di una certa attendibilità. Riportando in funzione del tempo le percentuali di famiglie scomparse durante i vari periodi geologici, essi trovarono che in quattro casi le estinzioni avevano coinvolto più del 30% delle famiglie e almeno in altri quattro casi si era superato il 10%.

Ma vi era di più. I “picchi” così definiti sembravano ripetersi con una certa periodicità. Ai pochi dati in loro possesso essi applicarono delle simulazioni statistiche al fine di verificare la validità della teoria ciclica. In altre parole, generando serie di numeri a caso, vollero verificare quante volte era possibile identificare tra di essi una ricorrenza periodica. Riscontrarono che un periodo di circa 26 milioni di anni era in ottimo accordo con le estinzioni più marcate e che tale risultato aveva una probabilità di non essere dovuto al caso pari a ben il 90%.

In conclusione, sembrava che ogni 26 milioni di anni qualcosa causasse una drastica riduzione delle specie viventi. Il crimine perpetrato a danno dei dinosauri non doveva più essere considerato un caso isolato, ma si ripeteva con rigorosa puntualità, quasi a far parte di un piano delittuoso freddamente premeditato. Malgrado lo scetticismo sollevato da più parti, la comunità scientifica si era ormai mossa ed altri lavori si susseguirono per affrontare un mistero che andava ingarbugliandosi sempre di più.

Usando gli stessi dati di Raup e Sepkoski, Rampino e Stothers del Goddard Space Institute della NASA, dimostrarono che una periodicità di 30 milioni di anni soddisfaceva altrettanto bene le estinzioni biologiche. Anche se la cosa può sembrare strana, le due ipotesi possono benissimo coesistere, in quanto è sufficiente spostare convenientemente la data dell’ultima estinzione, perché gli errori sulle altre siano compatibili con le incertezze proprie dei dati di partenza.

Qualcuno potrebbe obiettare che non vi è poi molta differenza tra 26 e 30 milioni di anni, perché non considerare un valore medio? Vedremo in seguito che questa differenza risulterà invece determinante nello stabilire la causa prima della catena delittuosa.

Qualcosa però andava muovendosi anche su un fronte del tutto diverso. Nel 1982 Richard Grieve del Canadian Department of Energy, finiva di compilare una dettagliata lista di tutti i crateri da impatto presenti sulla crosta terrestre, la cui età potesse considerarsi inferiore a 600 milioni di anni. Questo materiale era sicuramente un ghiotto boccone per gli studiosi coinvolti nei più recenti sviluppi della teoria ciclica. Se le estinzioni erano dovute a catastrofici impatti di asteroidi con corpi planetari e se esse si ripetevano con periodicità, era più probabile che una simile periodicità si trovasse anche nell’era dei crateri da impatto, segni inconfondibili di collisioni realmente avvenute.

Alvarez e Muller si dedicarono a questo problema, limitandosi però ad un sottoinsieme dei crateri individuati da Grieve. Essi eliminarono dalla loro analisi sia le strutture più piccole di 10 chilometri, sia quelle giudicate più giovani di 5 milioni di anni. In questo modo essi cercarono di tenere conto di inevitabili effetti di selezione tendenti a favorire i crateri più giovani e quindi meglio conservati.

In conclusione, degli 88 crateri appartenenti alla lista originaria, i due studiosi ne presero in considerazione soltanto 13. Il risultato fu comunque sorprendente: anche i crateri manifestavano una tendenza a sorgere con periodicità e questa era pari a 28,4 milioni di anni.

Una ricerca analoga venne contemporaneamente eseguita da Rampino e Stothers, i quali però considerarono un numero maggiore di crateri, eliminando soltanto quelli la cui datazione era estremamente incerta. Anche questa volta i dati mostravano una periodicità, ma il periodo trovato risultò essere pari a 31 milioni di anni.

I due scienziati andarono oltre. Cercarono, infatti, se esempi di ciclicità di altro tipo erano presenti sul nostro pianeta, in qualche modo conservatisi attraverso le ere geologiche. Essi studiarono le epoche di abbassamento dei fondali oceanici, quelle di discontinuità nei movimenti delle zolle tettoniche, quelle relative alle inversioni del campo magnetico, ecc… Le conclusioni furono nel contempo sia positive che negative. Da un lato, ogni fenomeno considerato mostrava una ripetitività compresa tra i 33 e i 35 milioni di anni, dall’altro i “picchi” dei vari periodi non coincidevano temporalmente: gli eventi peculiari erano sì equispaziati, ma anche sfasati nel tempo.

Un ulteriore velo di nebbia scendeva a complicare e cose. Era indubbio, però, che al di là dei molteplici problemi, vi erano delle coincidenze oltremodo stupefacenti che meritavano di essere approfondite ulteriormente.

A conclusione di questa fase, due visioni ben distinte si andavano formando. Da un lato quella di Alvarez e Muller, e di Raup e Sepkoski, concentrata su un periodo oscillante tra i 26 e i 28 milioni di anni, dall’altro quella di Rampino e Stothers, basata su un periodo di 30-31 milioni di anni.

Inutile dire che le reazioni della comunità scientifica a queste ipotesi furono e sono tuttora molto accese; le polemiche coinvolgono ormai i più disparati campi di ricerca. La più seria delle obiezioni riguarda i procedimenti statistici applicati ad un piccolo numero di eventi. L’obiezione è confermata dall’identificazione di periodi diversi a seguito di leggeri cambiamenti nei dati dipartenza.

Tuttavia ciò non vuol dire che i dati possano ammettere numerosi risultati tutti accettabili e che qualsiasi periodo abbia alla fin fine una sua validità. Quello che si può affermare è che la probabilità di essere di fronte ad un vero fenomeno ripetitivo è forse molto minore di quanto non sia stato considerato dagli ideatori delle ricerche. Anche con le dovute riserve, resta il fatto che si è di fronte ad avvenimenti e a concomitanze di assoluto interesse scientifico, che vanno appropriatamente investigate.

Il nostro giallo sta ormai entrando nel vivo, il classico colpo di scena ha spostato il teatro delle indagini: i crimini ripetuti necessitano di nuovi colpevoli.

Grappoli di comete verso la Terra

Se l’asteroide di Alvarez e colleghi era l’assassino ideale per spiegare un evento isolato o al più una serie di eventi senza alcuna connessione temporale tra di essi, non poteva più esserlo ora, alla luce delle nuove indagini. Era ormai necessario ipotizzare l’esistenza di una vera e propria associazione a delinquere, coordinata e gestita a livello superiore.

Se è vero che gli asteroidi del tipo Apollo-Amor hanno tutte le carte in regola per causare spiacevoli incontri con il nostro pianeta, non esiste niente di fisicamente plausibile che condizioni la loro visita a periodi ben determinati e possa dare periodicità ai loro appuntamenti con la Terra. E’ necessario trovare altrove gli esecutori materiali dei delitti, cercare una zona dove i potenziali criminali siano molto più numerosi e dove cause esterne possano più facilmente agire sulle loro azioni. Questa zona è facilmente individuabile ai confini del nostro Sistema Solare: è la cosiddetta Nube di Oort.

Essa è composta da miliardi di comete che rivolvono pigramente attorno ad un lontanissimo Sole in perenne attesa che un evento esterno, anche di lievissima entità, possa cambiare drasticamente la loro esistenza. Basta una piccolissima perturbazione ed ecco che il nostro piccolo e freddo ammasso ghiaccio e polvere inizia un emozionante viaggio verso l’interno del Sistema, attraversando a folle velocità le orbite dei grandi pianeti e spingendosi a volte fino a sfiorare l’enorme stella che ne occupa il centro.

Da inerte “palla di neve sporca”, la nostra cometa si accinge a diventare il fenomeno celeste forse più appariscente che conosciamo, dispiegando, per centinaia di milioni di chilometri, la propria coda e accentrando su di sé l’attenzione – e a volte la paura – degli uomini che ne seguono l’apparizione sulla volta celeste. Queste comparse sono eventi del tutto casuali e imprevedibili, a meno che l’oggetto celeste non venga catturato e immesso su un’orbita più ristretta e si ripresenti allora periodicamente alla visione terrena, come il celebre caso della cometa di Halley.

Apparizioni bellissime, fugaci, ma non certo pericolose quelle a cui siamo abituati. Ma se qualcosa, con cinica regolarità, strappasse non sporadicamente, ma ad intervalli costanti, un enorme numero di comete dal loro vagabondare pigro e lontano e le inviasse verso i pianeti più interni? Immaginiamo che una certa causa – ancora tutta da definire – sia in grado di cambiar rotta a qualcosa come circa un miliardo di comete. Ebbene, non vi sarebbero speranze, la nostra Terra e gli altri corpi maggiori del Sistema Solare sarebbero sicuramente investiti da almeno alcuni di questi oggetti, i grado di causare effetti del tutto simili a quelli discussi precedentemente riguardo all’impatto con un asteroide di qualche chilometro di diametro.

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La craterizzazione del suolo lunare testimonia i numerosi impatti che hanno interessato il nostro satellite e, quindi, anche la Terra, nelle epoche geologiche passate.

 

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Il cratere del lago Manicougan, nel nord del Quebec, si è probabilmente formato 215 milioni di anni fa a seguito della caduta di un asteroide di pochi chilometri di diametro. La struttura ad anello ha un diametro di circa 70 km

Scoperti allora gli esecutori materiali dei crimini periodici? Sembrerebbe di sì, sempre che siano valide le ipotesi sulla ripetitività dei vari fenomeni geologici e biologici. Resta, tuttavia, ancora aperta una parte fondamentale del nostro giallo: chi è la “mente”, quel qualcosa in grado di deviare e indirizzare spietatamente le comete verso la Terra?

Come si vedrà tra poco, le ipotesi diventano a questo punto sempre più azzardate, arrivando addirittura a creare un corpo celeste ad hoc, della cui esistenza reale non vi è ancora alcuna prova osservativa.

Due ipotesi a confronto

La prima teoria, avanzata da Rampino e Stothers nel 1984, si collega al movimento oscillatorio del Sole rispetto al piano della Galassia. Quest’ultima può essere schematizzata come un enorme disco del diametro di circa 100.000 anni luce e dello spessore medio di non più di 2000 anni luce. Benché le sue componenti più appariscenti siano senz’altro le stelle, è noto che l’enorme spazio compreso tra di esse è ben lungi dall’essere vuoto. Gas e polveri sono distribuiti ovunque nella Galassia, con una densità media di circa un atomo per centimetro cubo.

Tuttavia, vi sono numerosissime zone in cui la densità di tale materia può raggiungere valori ben più alti: le cosiddette nubi interstellari. A volte esse sono talmente dense da permettere collisioni reciproche tra gli atomi, che portano alla formazione di molecole, essenzialmente sotto forma di idrogeno. La loro massa può raggiungere valori pari a milioni di volte la massa del Sole e la maggior parte di esse mostra di addensarsi verso il piano galattico.

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La Nebulosa oscura LDN 1768: secondo una delle teorie proposte, sarebbe l'attraversamento di nubi di questo tipo a perturbare le comete estrene del Sistema Solare causando periodi di intense piogge cometarie sui pianeti interni

Tenendo, allora, presente che si osservano oscillazioni del Sole sopra e sotto questo piano con un periodo completo di quasi 66 milioni di anni, è chiaro che la nostra stella sarà obbligata ad attraversare la zona di massima concentrazione di nubi molecolari ogni 33 milioni di anni. Ogni 33 milioni di anni è allora probabile che il nostro Sistema Solare subisca notevoli perturbazioni gravitazionali da parte di queste enormi strutture di gas e polveri. Il gioco è così fatto: grappoli di comete verrebbero disturbate e immesse in orbite altamente pericolose per tutti i pianeti.

Questa – anche se espressa molto semplicisticamente – è essenzialmente la teoria sviluppata dai due geologi della NASA. Teoria altamente suggestiva, non c’è che dire, dove la ricorrenza di valori molto simili tra loro (30 milioni di anni per le estinzioni, 31 per i crateri, 33 per l’oscillazione del Sole) non può certo lasciare indifferenti.

Opposizioni? Moltissime.

Tra le tante ricorderò quella di Thaddeus e Chanan, anch’essi del Goddard Institute, i quali asseriscono che le nubi molecolari sono in realtà distribuite in modo abbastanza uniforme fino a distanze di qualche centinaio di anni luce dal piano galattico. Considerando che il Sole, nella sua continua altalena, si allontana di solo 200 anni luce, essi concludono che gli incontri Sole-nubi potrebbero avvenire in qualsiasi momento durante il cammino della nostra stella.

Per replicare a questa critica qualcuno ha addirittura pensato di modificare la teoria di Rampino e Stothers, ipotizzando che proprio nel piano galattico sia concentrata la “massa mancante” della nostra Galassia, forse sotto forma di anelli di materia simili a quelli planetari. Non andiamo oltre, in quanto si potrebbe veramente rischiare di sconfinare nella fantascienza (ma quanto sarebbe divertente, però!).

Se la teoria oscillatoria è basata su dati di fatto molto aleatori, ancora più precaria sembra essere quella che le si contrappone. Accettando come validi i periodi di 26 e 28,4 milioni di anni trovati da Raup e Sepkoski per le estinzioni, e da Alvarez e Muller per i crateri – inconciliabili con l’oscillazione solare – Whitmore e Jackson, rispettivamente dell’Università della Louisiana e della Computer Sciencs Corporation di Houston e, indipendentemente. M. Davis e R.A. Muller dell’Università della California a Berkeley e P. Hut di Princeton, si sono posti la sconcertante domanda: e se il Sole non fosse solo?

La nostra stella potrebbe essere accompagnata nel suo cammino galattico da una stella di piccola massa posta su un’orbita molto eccentrica, che la porterebbe fino a 150.000 Unità Astronomiche di distanza da noi nel punto di massimo allontanamento. Il periodo orbitale di questa fantomatica compagna del Sole – che è stata chiamata Nemesis – sarebbe di circa 26 milioni di anni.

Durante la fase di avvicinamento al Sole, l’invisibile compagna si spingerebbe a sole 26.000 Unità Astronomiche, ben dentro la nube cometaria di Oort, stimata estendersi tra le 10.000 e le 40.000 U.A. Al pari dell’entrata di una volpe in un pollaio, durante questo passaggio ravvicinato che si ripeterebbe ogni 26 milioni di anni circa, la nostra stella creerebbe il panico, strappando un numero notevolissimo di comete per effetto gravitazionale e convogliandole verso le zone più interne del Sistema Solare.

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Rappresentazione schematica della supposta orbita di Nemesis. Si noti l'attraversamento della nube cometaria di Oort, in prossimità del perielio

Anche in questo caso l’ipotesi è molto suggestiva, oltre che rivoluzionaria; i problemi da risolvere sarebbero comunque altrettanto critici. Quale dovrebbe o potrebbe essere la massa di questa stella? Malgrado le continue osservazioni con le strumentazioni più sofisticate, non ve ne è ancora sentore. Ciò pone dei limiti superiori alla sua possibile luminosità e, quindi, alla sua massa; mentre la necessità di perturbare significativamente le comete pone dei limiti inferiori. Si è stimato che essa potrebbe essere compresa tra i 5 e i 12 centesimi della massa solare; in altre parole, farebbe parte di quella categoria di stelle estremamente piccole chiamate nane rosse.

I fautori di questa teoria sono in pieno fervore osservativo e hanno iniziato una capillare ricerca al Leuschner Observatory, usando un telescopio di circa 80 cm di diametro completamente dedicato alla ricerca in questione. La fantomatica stella dovrebbe avere una grande parallasse data la sua anomala vicinanza, e ciò dovrebbe caratterizzarla in modo univoco. Non avrebbe, invece, un altrettanto notevole moto proprio in quanto vicino all’afelio – dove dovrebbe trovarsi in questo momento – il suo movimento sarebbe estremamente lento.

Al di là del fatto che l’esistenza di una simile stella è ancora ben lontana dall’essere provata, altri problemi sono stati sollevati recentemente. Ad esempio, c’è chi confuta la stabilità dinamica del sistema Sole-compagna. Ogni volta che Nemesis raggiungesse il suo afelio, le perturbazioni gravitazionali delle stelle vicine si farebbero sentire violentemente e, nel giro di piche rivoluzioni, la piccola stella sarebbe destinata ad essere “strappata” all’attrazione solare. Anche esistendo, Nemesis sarebbe, perciò, un fenomeno temporaneo nella storia del Sistema Solare, destinato a scomparire in un tempo relativamente breve rispetto all’età del nostro Sole.

Il fatto che l’ipotesi sia molto azzardata è, d’altra parte, condiviso anche dagli stessi scienziati che hanno formulato la teoria. Con buona dose di umorismo, Davis e colleghi hanno giustamente proposto, sulle pagine della prestigiosa rivista Nature, il nome di Nemesis per questa stella, che ben si accomuna con la dea greca della vendetta e della punizione, ma contemporaneamente hanno anche dichiarato apertamente il timore che essa possa trasformarsi in una nemesis per loro stessi!

Comunque sia, il nostro giallo è arrivato alle ultime battute o, quanto meno, i fatti più importanti sono stati riportati, anche se molte più pagine potrebbero ancora essere scritte a riguardo. Molti avranno già emesso il loro verdetto, molti altri vorrebbero avere un maggior numero di prove per esprimere un equo giudizio. In tutti spero sia scattata la molla dell’interesse verso un argomento senza dubbio affascinante. Prima di lasciarci, in attesa di futuri risvolti, vorrei concludere con qualche considerazione più generale.

E se fosse vero?

Ammettendo per un attimo che i fatti si siano veramente succeduti seguendo il filo logico delle varie ipotesi prima delineate, quali implicazioni ne risulterebbero? Una delle più sconcertanti riguarda sicuramente l’evoluzione delle specie viventi. Alcuni specialisti asseriscono che drastiche estinzioni delle famiglie animali presenti in una certa epoca avrebbe il potere di “velocizzare” il processo evolutivo globale. Invece di una graduale e lenta selezione naturale, si avrebbero delle accelerazioni improvvise in grado di aprire spazi incredibili ai sopravvissuti.

Nel giro di breve tempo i più fortunati raggiungerebbero stadi evolutivi elevatissimi, ottenibili altrimenti solo in tempi enormemente più lunghi. Sotto questa luce, potremmo vedere le periodiche estinzioni biologiche come dei veri e propri “acceleratori evolutivi”, spietati se si vuole, ma estremamente efficaci.

Gli eventuali sistemi planetari della nostra Galassia o dell’intero Universo avrebbero tutti analoghe possibilità di subire periodicamente impatti con sciami cometari? E, in caso affermativo, con quale periodo le catastrofi si ripeterebbero? Viene da pensare che la vita intelligente potrebbe non essere un evento raro nel Cosmo, e che qui sulla Terra sia stato accelerato in maniera del tutto anomala.

Forse siamo meno soli di quanto pensiamo ma, nello stesso momento, può darsi che l’evoluzione terrestre si sia spinta troppo in là rispetto ai nostri vicini. I nostri segnali potrebbero raggiungere sì altre forme di vita, ma arrivare a branchi di placidi dinosauri o a drappelli di terribili carnivori, impossibilitati a dare segni tangibili della loro esistenza.

Mi rendo conto di andare troppo in là con la fantasia e che l’argomento è sicuramente più adatto ad essere usato come spunto per un romanzo di fantascienza che non per un articolo di divulgazione scientifica. Per il momento, almeno. In futuro… chissà. Certo è che se il giallo raccontato in queste pagine dovesse un giorno risultare vero, di sicuro l’uomo dovrebbe cambiare completamente il proprio modo di pensare.

Fin qui l’articolo scritto nel 1988, dopodiché cosa ne è stato della ricerca di Nemesis?

Ovviamente è andata avanti… ed è grazie a Daniela che è stata riportata nelle righe che seguono (mentre io me la godevo in vacanza)

Alla fine degli anni Novanta John Matese, Patrick Whitman e Daniel Whitmire avevano suggerito che l’azione di perturbazione delle comete attribuita a Nemesis potesse essere svolta anche da un corpo celeste molto piccolo, un oggetto con massa equivalente o poco più grande di quella di Giove in orbita a una distanza media di 25 mila UA dal Sole. Una nana bruna, quindi… ma né la campagna osservativa del satellite IRAS negli anni Ottanta, né la Survey 2MASS condotta dal 1997 al 2001, riuscirono a rilevare alcuna traccia di una sorella del Sole, neanche di una di dimensioni ridotte, quale per esempio una nana bruna.

Nel settembre 2010 Adrian Melott e Richard Bambach pubblicarono su MNRAS Letters lo studio “Nemesis reconsidered”. Esaminando due distinti set di dati fossili che coprono un arco temporale di 500 milioni di anni, i due ricercatori ribadiscono che, per entrambi i set, si deve confermare la presenza di una periodicità delle estinzioni di massa pari a 27 milioni di anni. Ironicamente, però, è proprio questa precisione della periodicità, rilevata su un periodo così lungo, che finirebbe con l’escludere l’ipotesi di Nemesis come loro causa. Conosciamo, infatti, numerosi passaggi di altre stelle nei pressi del Sole, verificatisi nell’ultimo mezzo miliardo di anni, e tali passaggi dovrebbero aver influenzato pesantemente l’orbita della misteriosa compagna del Sole. Di queste modifiche orbitali, però, dovremmo scorgere una traccia evidente anche nella sequenza delle estinzioni riscontrata nei dati fossili.

Se l’orbita di Nemesis avesse subito un cambiamento repentino, a causa delle perturbazioni gravitazionali di queste stelle di passaggio, l’analisi statistica dovrebbe far emergere almeno un paio di differenti periodicità e non una sola. Insomma, la periodicità delle estinzioni, ovvero il dato tanto invocato come prova dell’esistenza di una compagna del Sole che, a intervalli regolari avrebbe attraversato la nube di Oort indirizzando molte comete verso i pianeti interni, è troppo regolare per poter essere provocato da una stella che avrebbe certamente subito variazioni orbitali a seguito di incontri ravvicinati con altre stelle, del cui passaggio siamo certi.

Possiamo, allora, scrivere la parola fine all’avventurosa e pittoresca ricerca di Nemesis?

Neanche per sogno… è di pochi mesi fa (2017) la notizia di uno studio, condotto da esperti di Harvard e di Uc-Berkeley, che, se confermato, avvalorerebbe l’ipotesi dell’esistenza di una sorella del Sole. Lo studio è stato condotto, grazie al Very Large Array Telescope, su una nube molecolare nella costellazione di Perseo, e dimostrerebbe che quasi tutte le stelle nascerebbero doppie o triple, per poi dividersi entro il primo milione di anni, oppure avvicinarsi. Certo l’analisi di un’unica nursery stellare non può essere sufficiente a generalizzare i risultati ottenuti, attendiamo altri studi del genere condotti su altre nubi, prima di esprimere giudizi.

Ma la ricerca scientifica non si ferma mai!

Anche se l’ipotesi Nemesis appare sempre più evanescente, essa ha costituito lo spunto per un'altra interessante ricerca avente ad oggetto l’origine del Sole: Fred Adams del Michigan Center for Theoretical Physics ritiene che il Sole possa essere nato in un ammasso stellare composto da alcune migliaia di elementi, che si sarebbero presto dispersi. Quindi è partita la caccia ai “fratelli perduti del Sole”.

Secondo una prima ipotesi, presto scartata sulla base di valutazioni dinamiche, questi sarebbero stati individuati nell’ammasso aperto M67. Nel 2014, invece, Ivan Ramirez (University of Texas) ha analizzato 30 candidati che avevano la possibilità di condividere la posizione del Sole nella Galassia 4,6 miliardi di anni fa e, tra essi, solo una ha superato sia le prove dinamiche che quelle spettroscopiche: la stella è catalogata come HD 162826 e dista circa 110 anni luce dal Sole in direzione della costellazione di Ercole.

HD162826
Il cerchietto indica la posizione della stella HD 162826 (nota anche come HIP 87382 o HR 6669), visibile con l’aiuto di un binocolo in direzione della costellazione di Ercole.

 

Conclusione (molto personale)

Ho avuto il piacere di discutere direttamente delle ipotesi cicliche con molti degli autori prima citati. In particolare con Rampino e Matese, diventati in breve ottimi amici con i quali ho condiviso non solo discussioni, ma anche varie cene e discrete bevute. Posso dirvi che, spesso e volentieri, certe ipotesi servivano a studiare effetti fisici e dinamici abbastanza lontani dal punto focale di partenza. Entrambe erano persone molto ironiche e pronte al dialogo aperto, non cercavano assolutamente di imporre le loro idee e, anzi, accettavano le critiche con sorrisi e pacche sulle spalle. Matese, ad esempio, era soprattutto interessato agli effetti mareali galattici su un sistema ai limiti della cattura gravitazionale (come la Nube di Oort). La periodicità delle estinzioni era un ottimo esempio a cui applicare i propri studi. Con Rampino avevamo anche cercato di vedere se l'attuale conformazione geologica  (divisione dell'unico continente Pangea e consequente deriva dei vari "pezzi") fosse dovuta a una pioggia asteroidale (creazione di una famiglia), in grado di separare le terre emerse secondo le linee di frattura. Vi era infatti una certa probabilità che l'attuale Madagascar e i corrispondente tratti di costa africana e indiana recassero segni di un unico impatto mostruosamente grande. Bastavano due o tre impatti dello stesso tipo per separare Africa e Asia.

Ipotesi, comunque, solo ipotesi, molto divertenti da analizzare e su cui intrattenerci in lunghe discussioni che finivano quasi sempre in risate e in prese in giro benevole. Anche questo è un risvolto molto importante di una Scienza "umana".

Un vero punto critico sulle ipotesi cicliche, su cui sono sempre stato irremovibile, è stata la validità statistica. Si parla di piccoli numeri su un periodo di qualche centinaio di milioni di anni. Ovviamente, i colpevoli diretti delle catastrofi periodiche dovevano essere le comete. Ma, come la mettiamo col fatto che ogni cento milioni di anni in media ci si deve aspettare un urto con un asteroide di qualche chilometro di diametro? Ai piccoli numeri (5-7) dovuti alle comete devono anche sovrapporsi altri piccoli numeri (2-3) dovuti a singoli asteroidi. Come sapere quali escludere dal ciclo? E come mai esiste un ciclo, pur essendo presenti eventi che niente hanno a che far con lui?

No, cari amici, la statistica su numeri troppo piccoli è sempre pericolosissima. Diventa del tutto impossibile se gli eventi da trattare hanno origine diversa e sono oltretutto comparabili in numero.

Io non credo a Nemesis e nemmeno ai gruppi punitivi cometari. Sono però convinto che gli studi relativi siano stati molto importanti, comunque, per lo studio delle interazioni Sole-galassia.

 

Chiunque sia stato il mandante e qualunque siano stati il movente e l'arma del delitto, i dubbi sul luogo del delitto non ce ne sono più e il nostro Guido, il geologo del Circolo, QUI lo analizza come solo lui sa fare.

 

QUI tutti gli articoli finora pubblicati della serie "I miei amici asteroidi"

 

 

3 commenti

  1. Molinaro Francesco

    Tutte vengono dalla Nube di Oort? Alcune volte attraversano il Sistema Solare venendo anche dall'esterno.

    C/2017 U1 è un misterioso oggetto di 150 metri,  catturato grazie al progetto di osservazione dell’università delle Hawaii PanSTARRS. che sta attraversando il nostro Sistema Solare, e che c'ha sfiorato ed ha ma  un'orbita particolarissima..

    URL VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=TKTAehXnPAI

  2. Caro Francesco,

    potrebbe essere il primo caso di cometa proveniente dall'esterno del sistema solare di cui abbiamo prova. La sua orbita è iperbolica e anche la composizione sembra un po' anomala. Tuttavia, sono ancora solo ipotesi...

    Comunque, niente di veramente strano e niente a che vedere con Nemesis e cose del genere...

  3. caro Francesco, ne parlerò proprio stamattina... QUI :wink:

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